Green Day
21st Century Breakdown

2009, Reprise/Warner
Punk Rock

Un successo da triplo disco di platino da riconfermare con questo ottavo album in studio.
Recensione di Fabio Rigamonti - Pubblicata in data: 25/05/09

Come posso fare per tentare quantomeno di replicare il successo di “American Idiot”, che ha venduto l’irrisoria cifra di 22 milioni di copie nel mondo?”. Questo pensiero deve aver ronzato parecchio nella testa di Billie Joe Armstrong e dei Green Day al termine del ciclo vitale del loro mastodontico successo commerciale (triplo disco di platino). La risposta, neanche troppo scontata, è stata prendere la struttura di “American Idiot” e portare ogni singolo elemento all’esasperazione.

Incrementare la potenza del concept album, incrementare il numero di canzoni, incrementare la melodia pop stemperata nell’energia punk cercando di migliorare il tipical Green Day sound (definito magistralmente da Rolling Stone come “il McDonald del punk”), incrementare la cristallinità di una produzione già di per sé perfetta. Nasce con questi presupposti questo “21st Century Breakdown”, album che narra le disavventure di Christian e Gloria nell’America di oggi: lui, autolesionista e distruttivo, incarna le disgrazie della scorsa amministrazione Bush; lei, ottimista e sognatrice, rappresenta la speranza di un domani migliore, forse concretizzata nell’amministrazione Obama. Il contrasto che genera la loro storia d’amore è anche il contrasto che governa questo album, che pone dei testi piuttosto pesanti e lugubri su melodie mai così energiche, easy ed ariose.

Già, ma com’è in definitiva questo album? I tre aggettivi con cui mi viene subito definirlo sono: monumentale, barocco e non del tutto convincente (questo non è un aggettivo, lo so, ma concedetemi una licenza poetica). Se “monumentale” si giustifica dando un occhiata al box della tracklist alla vostra destra, se “barocco” si spiega in canzoni molto originali come il charleston di “Viva La Gloria (Little Girl)” ed il boogie-woogie di “Peacemaker” (canzone irresistibile in salsa tex-mex, che comparirà obbligatoriamente su un prossimo film di Tarantino, garantito!), è la parte “non del tutto convincente” che mi ha creato più difficoltà giustificare.

L’album, difatti, ha sì dei fisiologici cali di tensione (capirai, con diciotto tracce all’attivo è normale!), ma è comunque estremamente godibile e prodotto divinamente da Butch Vig… Allora, cosa non va? All’ennesimo ascolto dell’opera, ecco l’illuminazione: è tutto davvero “troppo”. Troppe idee, mal sviluppate a volte, su una struttura concept che mal si adatta al punk, un genere di per sé statico per definizione (e, difatti, il primo singolo “Know Your Enemy” è la classica canzone-ritornello del punk rock: invariabile lungo tutta la sua durata), troppo lungo in durata (70 minuti!), troppa di quell’opulenza barocca che ho già citato e, tanto per infierire, anche troppo tempo trascorso tra questa opera e la precedente (cinque anni sono davvero tanti, non trovate?).

Insomma, ad una prima “occhiata” a questo lavoro non si può dire davvero nulla, ma basta grattare un attimo sotto la superficie, ed ecco emergere una scarsa robustezza delle fondamenta che sorreggono tutta l’idea del lavoro e che, mi spiace per i fan ed i sostenitori, non mi consentono di andare oltre la valutazione che trovate in calce. Poi dai, diciamocela tutta: “American Idiot” diceva fondamentalmente le stesse cose di questo “21st Century Breakdown”, senza perdersi in inutili barocchismi e centrando il punto con la medesima efficacia, solo con molto meno spreco di tempo e di risorse. Speriamo quindi, cari Green Day, che non ci facciate attendere altri cinque anni per una minestra riscaldata ed arricchita di ingredienti…anche perché: più ricca di questa, rischia davvero di diventare indigesta.



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