Dream Theater
Octavarium

2005, Atlantic
Prog Metal

Recensione di Alessandra Leoni - Pubblicata in data: 07/08/10

Mi accingo a scrivere questa recensione spinta da una certa determinazione, ben sapendo che cercare di discutere sui Dream Theater è tanto arduo quanto parlare della Nazionale italiana ai Mondiali in modo equilibrato e pacato, specie se la figura è tanto barbina come quella fatta in Sudafrica quest’anno. Si potrebbe dire che sono masochista (e soprattutto sadica) nel dire la mia in merito all’album secondo per controversia solamente al pluri-discusso “Falling Into Infinity”. Ebbene, signore e signori progster, stiamo proprio parlando di “Octavarium”, l’ottavo parto della band americana più amata ed odiata del panorama.

Ora, vorrei fare una piccola premessa utile alla comprensione di questa recensione: io non osanno i Dream Theater, né li odio a prescindere. Semplicemente, li lodo per quello che sono e non apprezzo tutto ciò reputo trascurabile o non degno della loro nomea. Nel corso della mia lunga carriera di seguace, ho compreso che discutere della band comporta una necessaria presa di posizione, per cui mi sono sempre astenuta dal confrontarmi con altri estimatori, onde evitare ulcere allo stomaco o qualche corsa al pronto soccorso. Tuttavia, penso che dopo qualche anno sia utile cercare di esprimersi in modo differente dal solito bianco o nero. Da parte mia, ho trovato un metodo piuttosto saggio per risparmiare il mio tempo: se qualcosa non mi piace, non l'ascolto più, mi limito ad esprimere se interpellata la mia opinione, altrimenti ascolto del materiale che ho piacere di ascoltare ed approfondire. Punto e stop.

Detto questo, vorrei immergermi nel modo più lucido possibile in “Octavarium”, con un primo consiglio: dimenticatevi della pesantezza e della complessità di “Train Of Thought”. Se l’album precedente era stata una vera e propria mazzata, per ricchezza nella composizione ed eccesso di virtuosismi, in questo disco si apre la finestra e si lascia entrare aria più fresca, leggera … E si, il clima non è più teso ed aggressivo, ma più immediato, trainato da brani pronti per essere sottoposti all'attenzione delle stazioni radiofoniche. Adesso, come allora, so che questa frase farà inorridire buona parte dei lettori, ma è anche questo il motivo per cui credo che questo full length sia stato fin troppo bistrattato. Le canzoni sono troppo leggere, James LaBrie scimmiotta troppo Matt Bellamy dei Muse (c’è da ricordare, per spezzare una lancia in favore della scelta stilistica del cantante canadese, che lo stesso frontamn, nel corso del tour di “Octavarium”, si è dimostrato capace di ottime performance) e, soprattutto, dove sono gli assoli sfrenati di John Petrucci, quelli capaci di dar fuoco alle corde della sua chitarra? Non sembra nemmeno più lui. E non avete tutti i torti a pensarlo, sia chiaro, perché anche io sono d’accordo con voi.

Occorre dire però che è anche piuttosto inevitabile, arrivati ad un certo punto della carriera, cercare di sperimentare e di uscire dal percorso al quale sembra d'essere stati destinati. Per questo il consiglio di prima è fondamentale. Una delicata “The Answer Lies Within”, fatta praticamente di soli archi e pianoforte e guidata dal cantare delicato e quasi sommesso di LaBrie (la chitarra è relegata in secondo piano) sembra quasi un episodio trascurabile ed inutile se paragonato a quanto fatto in precedenza, ma nel contesto dell’album rappresenta un momento piacevole, dal testo incantevole e tutto sommato pieno di speranza. “I Walk Beside You” rasenterà lo stucchevole per i più duri e il commerciale per altri, certamente i Dream Theater hanno saputo fare molto meglio, però nella sua semplicità riesce a fare breccia, grazie anche al ritornello che si stampa in testa dopo pochi ascolti. Purtroppo c’è da dire che “These Walls” è forse il brano meno ispirato e pià monotono del disco e per questo motivo lo si salta volentieri (d'altronde, devono averlo pensato pure i Nostri, dato che in sede live l’hanno proposto veramente pochissime volte). “Sacrificed Sons” è la tipica canzone che cresce con gli ascolti, quella che all’inizio sembra priva di mordente e stenta a decollare: basta aspettare ed ascoltare con attenzione per far sì che la canzone prenda il volo riempiendo l'aria di maestosità. L’orchestra dà un tocco di solennità unico, anche se, a dire il vero, sembra quasi appiattita in sottofondo (lo stesso brano, proposto nel live celebrativo “Score” con un’orchestra vera e propria, prende un’altra piega, appare sin da subito più consistente). A questo proposito, mi preme sottolineare la freddezza e la piattezza della produzione: questa considerazione vi sembrerà strana, ma “Octavarium” lo preferisco in sede live, perché sembra che i colori tornino ad animarlo.

Non è finita qui, perché a questo punto arriva la parte più aggressiva dell’album, figlia di quei frammenti di rabbia conservati dai tempi “Train Of Thought”, quella costituita da “The Root Of All Evil”, dal riff iniziale che ci trascina in una spirale di cattiveria, parlando del problema che ha consumato Mike Portnoy per anni, ovvero l’abuso di alcool. “Never Enough” è la risposta repentina e brusca ai fan pretenziosi, che aspettano sempre al varco ogni opera dei musicisti, pronti ad esaminarla ed a sezionarla come provetti chirurghi, insomma è dedicata a quelli che non si accontentano mai. Il sangue torna a pulsare nelle vene degli americani con “Panick Attack”, un esempio alquanto lampante di come i Nostri non si siano dimenticati che cosa vogliano dire parole quali potenza e rabbia. Infine, la natura dei Dream Theater, anche in un album così sfacciatamente diretto e distante da quelli precedenti, torna in vita con la maestosa e lunghissima titletrack, “Octavarium”. Ventiquattro minuti di melodie ispirate ai Pink Floyd, episodi di follia e intermezzi più delicati, esaltati dalla voce di LaBrie che torna a vestire i panni del cantante dei Dream Theater (anche se nei panni del frontman dei Muse non è stato così malvagio) e ci regala una performance di tutto rispetto, carezzevole a tratti, come pochi sanno fare, decisa e potente in altri frangenti. Una conclusione decisamente degna della nomea della band e più in sintonia con la loro natura esagerata e megalomane, ovviamente detto con affetto e senza astio.

Tirando le somme, che cosa rimane di questo disco? Molto poco, se non si è disposti ad accettare la volontà di sperimentare e di allontanarsi dalla spiaggia visitata ogni anno per le vacanze estive. Certo, “Octavarium” è forse il lavoro più scostante e controverso partorito dai Dream Theater in tutta la loro onorata carriera, ma l’esperimento non è totalmente fallito, dato che mi sembra di capire che tale disco sia sempre oggetto di disquisizione da parte di fan e detrattori e che qualche episodio venga pur sempre salvato o apprezzato. Dal canto mio, non posso certo metterlo sullo stesso piano di “Images And Words” o di “Metropolis Pt. II: Scenes From A Memory” o anche solo di “Awake”, ma reputo quest'album uno sforzo apprezzabile e più che discreto, lontano dalle abitudini dei Nostri. Tuttavia, vorrei ricordare che non esistono solo quei Dream Theater e credo che in fondo sia stato solo un bene che quegli episodi siano rimasti unici nella loro personale storia. Questo disco, in ogni caso, continuerà a far discutere...



01. The Root Of All Evil
02. The Answer Lies Within
03. These Walks
04. I Walk Beside You
05. Panic Attack
06. Never Enough
07. Sacrificed Sons
08. Octavarium

Intervista
Anette Olzon: Anette Olzon

Speciale
L'angolo oscuro #31

Speciale
Il "Black Album" 30 anni dopo

Speciale
Blood Sugar Sex Magik: il diario della perdizione

Speciale
1991: la rivoluzione del grunge

Speciale
VOLA - Live From The Pool