Chiamatemi romantica, se volete: ma voi che "Hybrid Theory" è il disco che portereste su un'isola deserta, voi che una settimana fa era come se Chester e Mike non cantassero per nessun altro, voi che vi ho visto ridere forte e versare lacrime di gioia furtiva all'Ippodromo del Galoppo sapete di cosa sto parlando, vero? C'eravate, c'eravamo, e ci siamo ancora. Uniti nel senso di orgoglio e trionfo che si moltiplica a ogni ascolto di "Rebellion", nella frenetica necessità di esplorare ogni andito della fortezza di "A Line In The Sand", ché in quei sei minuti e mezzo ci sono diciott'anni di storia e scusate se è poco. Chiamateci romantici, se volete, ma noi che non ce ne siamo mai andati - noi che con i Linkin Park abbiamo anche toccato il fondo - lo sapevamo che da qualche parte il fuoco bruciava ancora. E però mancava il combustibile giusto per dare vita a un disco come "The Hunting Party" - mancava l'antica voglia di dare battaglia, l'impulso ingovernabile di fare qualcosa e farlo adesso, quello che undici anni fa possedeva Chester Bennington mentre gridava "you're gonna listen to me / right now / hear me out loud" e non si capiva come un corpo solo potesse contenere tutta quella rabbia.
Narra la leggenda tramandata da Rolling Stone che l'intuizione - ovviamente - sia stata di Mike: Mike che un giorno si è guardato intorno nel suo studio e si è chiesto cosa diavolo stesse facendo, perché stesse scrivendo un altro "Living Things". Un disco di cui neppure lui sentiva il bisogno, figuriamoci noi; un disco il cui unico pregio sarebbe stato quello di mettere d'accordo gli eterni litiganti, i fan della prima ora e gli alfieri di "A Thousand Suns", nell'eleggerlo peggior capitolo della discografia dei Linkin Park. E allora la regola numero uno dev'essere diventata quel "NO CONTROL" che Chester sbraita con ferocia inaudita in "Keys To The Kingdom", seguito a ruota da uno di quei frammenti che rendono "The Hunting Party" un'esperienza tanto intima. "Put the heavy shit there", ordina una voce fuori campo un istante prima che "Guilty All The Same" si abbatta su di noi con quel riff di chitarra che - finalmente - ha di nuovo il sapore di una chiamata alle armi; e mentre i Linkin Park tornano a innamorarsi della loro musica noi torniamo a innamorarci di loro, persi in questo baccanale il cui ritmo selvaggio è dettato da un Rob Bourdon più scatenato che mai.
Viscerale, aggressivo, liberatorio e quasi interamente autoprodotto, "The Hunting Party" è una bestia rara persino per gli standard dei Linkin Park; è il disco che aspetti per anni e quello che non ti aspetteresti mai, il disco di cui avevi bisogni e neanche lo sapevi. Il disco che sulla carta non ha speranze, ma sul piatto assume vita propria e di colpo tutto ha più senso, anche il cuore punk di "War" che pulsa accanto a quello pop di "Until It's Gone". Qualcuno l'ha definito il disco della maturità, noi non ci spingeremo a tanto: perché se del cambiare pelle con i Linkin Park non sei mai stanco, se ascoltare "The Hunting Party" è come tornare a casa, allora lo sai. Sai che l'album migliore dei Linkin Park è quello che i Tuoi devono ancora scrivere, sai che non finisce qui. Perché la battaglia non è vinta: la battaglia è appena cominciata.