Robert Plant
Carry Fire

2017, Nonesuch Records
Rock

Recensione di Giovanni Ausoni - Pubblicata in data: 11/10/17

In un'industria discografica satura di prodotti spesso usa e getta esiste ancora lo spazio per veterani con più di una scintilla di curiosità ed esuberanza: l'età del resto non rappresenta necessariamente un processo di inevitabile deterioramento artistico, anzi accade spesso che a maturità inoltrata si colgano frutti insperati. Robert Plant, 69 anni da qualche mese, un trascorso glorioso e ingombrante alle spalle, una carriera solista decorosa, ma priva di vere vette apicali, ribalta  sfavorevoli premesse. "Carry Fire", a dispetto di ragionevoli dubbi riguardo il tangibile valore dell'operazione, restituisce un musicista capace di riproporsi sulla scena in modo efficace.

 

Una sensazione malinconica di tardo autunno, i suoi colori sfumati eppure vividi, la fragranza dell'erba intrisa d'acqua piovana, i toni soffici dell'elegia si inseriscono in un ibrido calderone ribollente di folk, rock, ritmi nordafricani e persino schegge elettroniche: un album eterogeneo che rappresenta probabilmente l'acme creativo del rocker inglese dopo la separazione con i Led Zeppelin nel 1980.

 

A scortare il singer britannico l'ensemble dei Sensational Space Shifters, qualcosa di più di onesti session men. Il loro contributo orchestrale va oltre il semplice accompagnamento: se il disco appare ben congegnato molto risulta merito della perizia tecnica del quartetto, dell'incredibile numero degli strumenti utilizzati e della tipicità di alcuni di essi. Bendir, djembe, dobro: etnici protagonisti di una miscela di suoni in grado di screziare le varie sezioni del lavoro. Il violoncellista albanese Redi Hasa e Seth Lakeman alla viola e al violino completano una sorta di suggestiva big band dinamica e memore di variopinte pulsazioni worldbeat.

 

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La perfetta interazione dell'insieme emerge immediatamente su "The May Queen": moog, percussioni arabeggianti, suggestioni folk e palpabili impulsi boogie evocano un senso di blended whiskey moderno maturo e distillato con cura piuttosto che la percezione stanca e obsoleta di tante versioni maldestramente aggiornate del sound dei sixties.

 

Gradita sorpresa la voce di Plant: sebbene risulti normale che non possa oramai scalare i picchi vertiginosi della giovinezza, resta comunque lodevole il tentativo di non riciclare le evoluzioni degli anni '70 attraverso fastidiosi e fittizi effetti di studio. Fumosa, intima, delicata, l'ugola dell'ex-ragazzo delle Midlands Occidentali plana soffice su tappeti di kashmir. Un approccio adatto alle atmosfere acustiche di "Season's Song", brano adombrante la storia di un uomo consapevole della propria mortalità: "My senses have escaped me / My mind is on the run".

 

Tuttavia la grinta del leone non si affievolisce: "New World...", pezzo annunciato da un'introduzione massiccia e poderosa, evoca frammenti primordiali. L'allusione a "Immigrant Song", uno dei pochi riferimenti al leggendario passato, non implica una facile copia, tutt'altro. Plant volta lo sguardo a ritroso nel tempo, alle esperienze vissute e che lo hanno segnato, senza mostrare rammarico o malinconia, piuttosto ossessionato da ciò che gli propone il futuro. "Dancing With You Tonight" esaspera drammaticamente tale stato d'animo: "And now the carnival is over".

 

"Carving Up The World Again...A Wall And Not A Fence" sposta i confini geopolitici, immergendo il platter nelle cadenze tribali e tambureggianti dei nativi americani. Nondimeno le chitarre frantumanti l'ancestrale orizzonte rammentano che l'opus non funge esclusivamente da sterile esercizio di fusion contemporanea: selvatiche venature rock affiorano in superficie, amplificate dal rombo di "Bones Of Saints".

 

Ambiente cangiante in "A Way With Words". Grovigli di serafiche nuvole, insetti notturni che si ritrovano nel caldo crepuscolo, reminiscenze che germogliano, l'intensità emotiva che cresce: corrispondenze e analogie in cui natura e sentimenti intrecciano trame mistiche di agrodolce new age. La title-track, nel frattempo, si erge a trascrizione sonora di una Marrakesh ancora vivace al tramonto, le corde dei traditional pizzicate sotto cieli stellati di synth.

 

Le trascurabile "Keep It Hid" ed "Heaven Sent" cedono il passo all'unica cover presente, ovvero "Bluebirds Over The Mountain" di Ersel Hickey, già interpretata dai Beach Boys e Ritchie Valens, alla quale partecipa Chrissie Hynde dei The Pretenders: una sezione ritmica pimpante e riff affilati sostengono un pastoso e tossico amalgama vocale di gusto vintage. Una canzone sicuramente degna dell'onore della chiusa del lotto.

 

Piacevole colpo di coda dunque per Robert Plant: "Carry Fire" documenta lo stato di grazia di un artista lucido e dal pedigree ancora intatto. E benché a volte planare con eccessiva e ingenua disinvoltura dagli Appalachi al Sahara provochi qualche sbandamento, forse il nostro finalmente può fare a meno del caro e vecchio dirigibile.





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