Recensire un disco degli Iron Maiden di questi tempi è quanto di più inopportuno possa esserci per chi si occupa di musica, parola di uno che è cresciuto a pane, nutella e Maiden proprio come voi. Nessuno sentirà il bisogno dell’ennesima guerra di opinione su una band sulla quale è stato detto e si continua a dire di tutto sull’onda emotiva dell’ultima release. Recensire un disco diventa invece uno strumento utile a rilevare quanto possano essere mutevoli le opinioni col passare degli anni, quando le animosità scivolano via e il tempo porta consiglio e obbiettività. Se prendiamo la recensione dunque come un esercizio di psicanalisi, allora chi scrive potrebbe uscirne parzialmente giustificato nelle intenzioni.
La chiamata alle armi per le legioni di Maiden fans risuona nella primavera del 2000, anticipata da un reunion tour che aveva rispolverato alcuni vecchi classici e riportato la band davanti alle grandi folle. Le premesse del ritorno di Bruce Dickinson non erano quelle di una mera celebrazione del passato, ma puntavano a proiettare in avanti il sound della band proprio come era stato fatto negli anni ‘80. Con il recupero di Adrian Smith e la conferma di Janick Gers i Maiden si avvarranno di un vero e proprio tridente chitarristico d’attacco, in cui i tre solisti avrebbero potuto spaziare in totale libertà. È proprio in quest’ottica che va letto il ritorno dei Maiden in versione 2.0, ma le cose non andarono esattamente così. “Brave New World” rappresentava per l’epoca quello che i fans desideravano ascoltare da anni, il superamento di un decennio tormentato in cui la band aveva dovuto gestire in qualche modo un Bruce Dickinson svogliato, il suo conseguente abbandono e l’arrivo di un cantante che, pur senza colpe evidenti, mai si era dimostrato all’altezza della situazione. Il fatto poi di poter contare su seguito fedelissimo ha fatto sì che la band riuscisse ad attutire l’impatto dei nuovi generi musicali sorti nel frattempo. “Brave New World” è un disco amatissimo dai fans al punto che molti lo ritengono ancora oggi il migliore dei cinque dischi post reunion. Su un pezzo come “The Wicker Man” credo che nessun fan possa recriminare qualcosa, si tratta di un’opener fra le più efficaci di sempre che li ricolloca come livello qualitativo appena sotto gli anni ’80. Per quasi metà disco la band è ancora in grado di mettere le note giuste al posto giusto, richiamando in modo intuitivo lo stile che l’ha resa leggenda. “Ghost Of The Navigator” ha degli stop and go interessanti che fanno passare in secondo piano l’approssimativo break centrale, “Brave New World” è confezionata ad arte per essere cantata a squarciagola durante i concerti, “Blood Brothers” invece è il primo esempio di brano atipico, magari non perfetto ma dotato di una sua personalità, con il suo incedere cadenzato e un’atmosfera quasi celtica. Fin qui tutto bene ma come dicevamo, ai Maiden piace giocare facile e oggi che i fans di allora sono tutti piuttosto cresciutelli, certi difetti balzano all’occhio. Intendiamoci, non c’è nulla di inascoltabile nei restanti sei pezzi “Brave New World”, ma è forte la sensazione che con una maggiore profondità il disco sarebbe stato di quelli da tramandare ai posteri. “Dream Of Mirrors” ad esempio con il suo bellissimo incedere rock, ha una sequenza di accordi semplice e granitica che si perde però in un accelerazione che ha lo stesso fastidioso effetto di quando fate girare un vinile a 45 giri (detto anche “effetto Chipmunks”). “The Mercenary” avrebbe avuto difficoltà anche ad essere inserita su qualche B-side da quanto è sfiancante, mentre la discreta “Fallen Angel” riesce in qualche modo a far rivivere le atmosfere epiche di “Seventh Son”. Invece tutto resta lì, appeso in modo superficiale per fare presa, come il coro di “Out Of The Silent Planet” (anche questo ripetuto allo sfinimento), o il tediosissimo break strumentale di “The Nomad”, ottimo nelle intenzioni ma che non decolla mai. “The Thin Line Between Love And Hate” si regge sul solito controtempo e su un testo francamente imbarazzante, ma regala in chiusura una nota di speranza e di apertura verso nuove atmosfere. Probabilmente il difetto dei Maiden odierni è proprio questo, grandissime intuizioni che restano tali, con un approccio compositivo più ragionato la loro musica si sarebbe da tempo schiusa verso chissà quali lidi. Un difetto, però, che è anche la garanzia della loro spontaneità, perché quella che sentiamo sui loro ultimi dischi è quello che esce dai loro strumenti, senza artifizi né sovrastrutture.
Gli Iron Maiden di "Brave New World" suonano esattamente come fans desideravano, ma scavando dietro l’impatto dei cori da stadio, delle twin lead e delle galoppate di Steve Harris, emerge una band che in fase di stesura e arrangiamenti si è limitata davvero al minimo sindacale, considerata la presenza di tre chitarre soliste e cinque compositori. È da questo momento che si faranno sempre più pressanti da parte dei fans le richieste di una maggiore progressione del sound, richieste che prenderanno forme assai più intriganti già col successivo “Dance Of Death”.
Gli Iron Maiden di "Brave New World" suonano esattamente come fans desideravano, ma scavando dietro l’impatto dei cori da stadio, delle twin lead e delle galoppate di Steve Harris, emerge una band che in fase di stesura e arrangiamenti si è limitata davvero al minimo sindacale, considerata la presenza di tre chitarre soliste e cinque compositori. È da questo momento che si faranno sempre più pressanti da parte dei fans le richieste di una maggiore progressione del sound, richieste che prenderanno forme assai più intriganti già col successivo “Dance Of Death”.