Direttamente dall'Inghilterra con furore, una coloratissima vagonata di energia e vibrazioni pesanti è pronta a travolgere una nuvolosa Milano, minacciando di far traballare le pareti dell'Alcatraz. Cosa che effettivamente accade.
C'è poco da fare, gli Enter Shikari sono sempre e comunque una garanzia. I quattro ragazzotti dell'Hertfordshire tornano in Italia a distanza di pochi mesi (l'ultima volta li avevamo visti quest'estate sul palco dell'Home Festival) e portano in scena uno spettacolo tanto unico quanto raro.
Rou Reynolds e compagni infatti si sono imbarcati in un tour per festeggiare i primi 10 anni del loro album d'esordio, "Take To The Skies", annata 2007, proponendolo per intero.
A scaldare le teste infreddolite che progressivamente riempiono il locale ci pensano i Mallory Knox, giovanissima band di Cambrige al terzo album (di cui l'ultimo, "Wired", uscito appena due mesi fa) e alla seconda volta in Italia. Seppur il pubblico non sia ancora propriamente numeroso, la band irrompe sul palco proponendo post-hardcore misto a dell'alternative rock ben "impostato", incitando al primo -ancora abbastanza timido e composto- pogo, intrattenendo per circa una quarantina di minuti. Il tempo necessario per consentire all'Alcatraz di riempirsi come si deve.
Esattamente alle 21.02, puntuali come la sfiga, Rou, Liam, Chris e Rob fanno il loro ingresso sul palco, occupando educamanete il proprio posto sul palco. Educatamente sì, ma giusto per qualche minuto, prima di lanciare la prima d'onda d'urto con "Enter Shikari". Bastano pochi secondi e il pubblico della band si fa subito riconoscere. Il pogo inizia, cresce, esplode e continua. E poi continua ancora. Nessuna probabilità che si fermi, neanche per un nano secondo. Giusto così. Fino alla fine. Ci piace.
La band propone esattamente nell'ordine le prime quattro canzoni dell'album, dando immediatamente spettacolo della loro natura di perfetti animali da palco, insaccati in camicie garbate da nice guys. Rou e la sua acconciatura da Super Sayan, volano dalla destra alla sinistra del palco e dalla sinistra alla destra, incessantemente, senza tregua, trascinando con sè tastiera e asta del microfono, costretti a vivere mirabolanti giri della morte.
La potenza del loro "electronicore" (vox populi dixit) si schianta sul pubblico, con il quale la band dimostra con orgoglio un rapporto più che consolidato. L'immensa palla di energia rimbalza da un lato all'altro del locale, dal palco in giù e poi risale con prepotenza verso l'alto, esplicandosi in circle pit e mashup da fare invidia anche al peggiore concerto dei Manowar. Circle pit che si fanno velocissimi su perle come "Jaggernauts" che vedono letteralmente volare corpi su corpi raccolti dai poveri omoni della sicurezza. Onesto. Beata gioventù. L'intesa è così profonda e sentita che addirittura su "No Sssweat" Chris e il suo basso scendono dal palco, si fanno spazio tra la folla e creano un enorme vuoto, sdraiandosi al centro ed incitando vortici su vortici di teste, prima deboli, poi sempre più veloci, che alla fine - dopo aver permesso al bassista di suonare tra il pubblico- lo riporteranno in stage diving sul palco.
La resa live della band è ormai più che consolidata: i volumi alti e grezzi delle chitarre di Liam si intrecciano ai colpi di basso energici e risoluti di Chris, sostenuti dalle bacchette velocissime di Rob, il tutto a cullare la voce di Rou che viene continuamente rinforzata da quella del pubblico, il quale diventa in tutto e per tutto il quinto membro della formazione inglese.
La scaletta scivola velocemente, anche fin troppo, arricchita da classici come "Torn Apart" e "Anaesthetist", e da "Redshift" e "The Appeal & the Mindsweep I" in encore, che vede anche qui Liam con la sua chitarra precipitarsi giù dal palco per surfare sulla folla che con fermezza sostiene il proprio beniamino.
Insomma, con gli Enter Shikari lo show di qualità è sempre più che assicurato. Unico amaro in bocca lo lascia la durata della perfomance, di appena 1 ora e circa 10 minuti, che comunque non turba più di tanto il pubblico pienamente soddisfatto ed estasiato di ciò che ha ricevuto. Un lavoro egregio, come al solito.