HEAVY STONES #3: RONNIE WOOD
Quando i Rolling Stones si ritrovano davanti alle scelte che hanno contribuito a procurare da parte di Mick Taylor e le subiscono, i loro equilibri ne escono danneggiati; soprattutto Richards è fortemente spiazzato, per di più in un momento in cui per lui a livello personale quasi tutto è difficile e confuso, e Jagger è sempre più insistentemente tentato dall’idea di un suo cammino separato. In una situazione felicemente instabile si trova anche Ronnie Wood, probabilmente più abituato a una vita incerta e nomade, in perenne cambiamento, visto che viene da una famiglia di gitani di battello, sempre in movimento fra fiumi e canali inglesi.
Wood sceglie la carriera di musicista professionista quando è ancora minorenne e a soli vent’anni è già un membro del Jeff Beck Group, anche se per diventarlo deve accantonare la chitarra al cospetto di Beck e dedicarsi al basso. Dopo due album con loro torna al suo strumento e, assieme a Rod Stewart ed altri membri dei dissolti Small Faces, nel 1970 si unisce ai Faces con cui pubblica quattro album, uno per anno, a segnare un periodo molto fertile e intenso della formazione londinese. Ma Stewart ha una personalità troppo carismatica ed esplosiva per rimanere confinata all’interno del gruppo, cerca e ottiene un proprio spazio personale spingendo anche Wood a fare lo stesso.
Così iniziano le prime collaborazioni di Wood con i tanti protagonisti della scena locale, per cui al tempo non c’era che l’imbarazzo della scelta: Pete Townshed, Steve Winwood, Eric Clapton e Mick Jagger. Nel 1974 Wood pubblica il primo album da solista, registrato nello scantinato di casa, dal titolo molto esplicativo di “I’ve Got My Own Album To Do”, che dice molto sull’atmosfera di intraprendenza che c’era sulla scena britannica all’epoca. I continui intrecci con questi personaggi, favoriti da feste e concerti, dalle numerose esibizioni e dalla frenetica attività discografica di quel periodo, fatalmente tramite Jagger portano Wood anche a contatto con Richards; Ronnie li coinvolge nella produzione dei suoi album (incluso “Now Look”, 1975), i due contraccambiano e lo scelgono alla fine di un lungo e travagliato processo di selezione come sostituto di Mick Taylor per la registrazione di “Black And Blue”, e il gioco fu fatto.
Questa mutazione degli Stones, quella definitiva, in realtà non fu tanto facile né veloce; la registrazione di “Black And Blue” a Monaco richiese due anni, interrotta per mesi dai tanti problemi portati soprattutto da Richards. L’album ne risente infatti e si identifica come il tipico lavoro di passaggio, che va da suoni e scelte distintive del periodo precedente influenzato da personaggi come Billy Preston, a un germinale ritorno verso il blues e la matrice originaria della formazione; il titolo è la sintesi perfetta di questo momento. I veri Rolling Stones quindi tornano solo nel 1978 con l’album successivo, “Some Girls”; è qui che Richards riprende e sviluppa con Wood l’intreccio, la miscela armonica e ritmica delle chitarre che sono il tratto unico e originale della sua musica, in brani inconfondibilmente propri come “Beast of burden”. Questa nuova e ritrovata felicità espressiva dona al gruppo una serie di lavori in sequenza, tutti legati fra di loro sotto il segno della medesima intenzione musicale; “Emotional Rescue”, “Tattoo You”, “Undercover” e in calando fino a “Dirty Work”. Dopo una pausa nel 1989 il gruppo ritorna, sempre accolto da un’atmosfera di inattesa ed insperata riunione, con “Steel Wheels” e poi, con ritmo sempre meno serrato, verso lavori con maggiori influenze ed indulgenze a timide espressioni più pop come in “Voodoo Lounge”, “Bridges To Babylon” e “A Bigger Bang”.
Wood non è stato un autore particolarmente brillante né prolifico, nemmeno un interprete geniale o un esecutore indimenticabile; che non fosse artisticamente così importante lo conferma anche il fatto che il gruppo lo tenne fuori dall’industria di famiglia, limitandosi a stipendiarlo, fino al 1993, cioè per quasi vent’anni. Wood piuttosto è stato l’elemento giusto sotto il profilo orchestrale (ed empatico) che, nel momento cruciale e più indicato, è intervenuto a permettere a Richards di riappropriarsi del suo linguaggio musicale, perso di vista nel periodo più buio e complicato della sua vita. È stato il cugino minore, il complice, il compagno ideale con cui Richards ha potuto abbandonarsi ed indulgere in tutte le sue debolezze e i suoi eccessi nella vita reale fino al punto di metterlo in condizione di recuperarsi anche artisticamente. È stato il partner confidenziale a cui Richards ha affidato la struttura della sua costruzione sonora, senza il quale non avrebbe potuto scrivere la sua musica così come la concepiva. Wood ha anche riavvicinato Jagger a Richards, intervenendo a smorzare l’esuberanza del primo e rafforzando il secondo; gli Stones erano già là, erano Richards e Jagger, ma senza un Ronnie Wood è probabile che si sarebbero sciolti e comunque non ci sarebbero stati i Rolling Stones che conosciamo, l’unica band che ha percorso e impersonato tutto il rock per più di cinquant’anni, dalla creazione alla sua estinzione.
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Articolo a cura di Arcangelo Accurso - Pubblicata in data: 24/04/13
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