Probabilmente, quando spuntarono dal nulla agli inizi del nuovo millennio con il loro anacronistico stile fatto di capelli da cocker, baffetti folti e giacche di pelle, i Kings Of Leon non potevano nemmeno immaginare l'accoglienza che il mondo della musica avrebbe riservato loro. Eredi spirituali del Southern Rock profetizzato tra gli altri dagli Allman Brothers, i fratelli (più cugino) Followill riuscirono a costruirsi presto un seguito sconfinato in tutto il mondo, pur avendo un vocalist sostanzialmente annaspante (per fortuna migliorato parecchio nel corso degli anni) e grondando ignorante e conservatrice americanità.
Una traiettoria ascendente che però, col passare degli anni e col crescere del numero di promesse non mantenute, ha cominciato a puntare pericolosamente verso il basso. La controversa svolta 'pop' di "Only By The Night", preannunciata dall'adozione di un look più cool e meno immedesimante per gli aficionados del blues rock old-style, ha portato tanti colleghi a scagliare attacchi feroci e gran parte della critica a ricoprire di biasimo un album in realtà più che onesto. L'ancora più infelice storia recente ha visto affiorare indizi di scioglimento, disagi, liti e dipendenze, tournée chilometriche annullate e una release non certo eccezionale come "Come Around Sundown", munita del solito paio di discrete hit ma nell'insieme svogliata, priva di audacia e mordente, prodotto di una band in palese difficoltà.
L'uscita del sesto studio album pare dunque essere una vera occasione da dentro o fuori, l'ultima chance per dimostrare di poter lasciare davvero il segno, di non essere un enorme e clamoroso bluff. "Mechanical Bull", che c'è stato annunciato adesso come un ritorno alle origini, adesso come il disco più diretto di un'intera carriera, riesce fortunatamente a mostrare fin dai suoi primi minuti di poter sostenere il peso delle aspettative. Mentre i precedenti album affidavano le loro aperture alla lenta ombrosità di pezzi come la splendida "Closer" o la mediocre "The End", adesso il compito di rompere gli indugi spetta alla vivacità di "Supersoaker", alla sua genuina ed estiva euforia. E sono tanti i brani in scaletta ad essere accesi da questo piglio brioso e irresistibile, vero concentrato di energia e spontaneità (con la sensazione d'estemporaneità che viene rinforzata da qualche piacevole urletto piazzato qua e là): su tutti il compatto ed aspro quasi-hard-rock delle chitarre e dei sorprendenti assoli di "Don't Matter" o il sabbioso e coinvolgente blues di "Family Tree". Non manca chiaramente lo spazio per l'introspezione e il sentimentalismo, che suona stavolta quanto mai sincero ed autentico: facendo a meno di coretti e patine radio-friendly, le tremule e toccanti vocals di "Wait For Me", l'andamento springsteeniano di "Beautiful War" o i suggestivi archi della superba "Comeback Story" sembrano puntare, più che all'estasi collettiva di una platea urlante, a un'intima comunione emotiva con l'ascoltatore.
Non sarà magari indomabile e straripante come il titolo o alcuni strombazzamenti pre-release volevano suggerire, ma "Mechanical Bull" è un album impeccabile, che rapisce con ogni sua sfrenata accelerazione e con ogni successiva distensione, tappe di un cammino completamente privo di momenti sottotono. Ritmi da cui farsi travolgere, da accompagnare battendo le mani e schioccando le dita, lasciandosi andare. Canzoni da cantare a squarciagola mentre si abbracciano festosamente compagni di bevute, quando sale la sbronza, o da sussurrare mentre si stringono compagne di vita, quando scende la notte. Un rock autentico, caldo, fatto di sudore e passione, spensierata giocosità e sincera tenerezza.