Anche andando oltre la classica, e spesso semplicistica dicotomia amore/odio, i Suicide Silence si prestano inevitabilmente a subire in egual misura osanna commoventi e strali malevoli; anzi, a dire il vero, l'ultimo album in studio, lo scadente "Suicide Silence", un'accozzaglia stilistica confusionaria e di pessimo gusto, ricevette critiche feroci persino dallo zoccolo duro dei fan. Quasi a voler ricucire uno strappo - umano e musicale - risalente alla morte mai dimenticata di Mitch Lucker, i nostri rilasciano un disco ecumenico, capace, per quanto possibile, di mettere d'accordo appassionati e detrattori. E così "Become The Hunter" rappresenta il ritorno degli statunitensi a un deathcore crudo, ma non troppo rigido, aperto a esplorare i limiti del genere senza indulgere in inutili sperimentalismi.
Hernan "Eddie" Hermida alterna scream e growl con buona personalità, al livello delle prove quando veste i panni di frontman negli All Shall Perish, mentre la pressione creata dall'aggrovigliarsi ciclopico degli strumenti rischia di far schizzare gli occhi dalle orbite degli ascoltatori. Seguendo la logica di un colpo al cerchio e uno alla botte, i nostri confezionano una manciata di brani piuttosto convincenti: tra arzigogoli tecnici degni di Cryptopsy Decapitated e Dying Fetus ("Two Steps", "Feel Alive", "Love Me To Death"), nostalgie nu metal ("The Scythe"), rimandi ai riff primordiali degli esordi ("Death's Anxiety"), parte del lavoro riesce a coagulare estremismo e groove in maniera abbastanza equilibrata.
I pezzi restanti, pur impetuosi e oppressivi, non si discostano molto dai canoni del gruppo, con gli elefantiaci breakdown a incarnare il ruolo di mattatori e un minutaggio che definire eccessivo sarebbe già un complimento. Nonostante i difetti, la discreta efficacia di "Become The Hunter" autorizza i Suicide Silence a sperare concretamente in una nuova vita: peggiorare, obiettivamente, risultava complicato.