E' tempo di Radiohead, è tempo di "Ok Computer". Gli echi e le polemiche del concerto di Monza non hanno fatto in tempo a dissolversi che, a vent'anni dalla sua uscita, uno dei capolavori del rock contemporaneo torna prepotentemente d'attualità, anche se potremmo affermare con certezza che non ha mai smesso di esserlo. La reissue di "Ok Computer" è forse la prima autentica concessione al mercato e al music business della band di Oxford, da sempre restia a qualsiasi forma di compiacimento mediatico, capace di vivere la propria dimensione artistica in modo del tutto personale.
Scrisse un nostro collega qualche anno fa a proposito di "OK Computer": "non sale di giri, non fa il tamarro, non è un album per esaltarsi". Parole da scolpire nella roccia. Non spenderemo su di esso una parola in più: se lo avete ascoltato, lo conoscete meglio di noi; se non lo avete ancora fatto, provvedete immediatamente. Lo scopo di questa recensione non è quello di incensare per l'ennesima volta questo capolavoro a suon di roboanti aggettivi. A ben pensarci, non è neppure il senso di tutta l'operazione, così come è stata concepita. Su questa ristampa domina lo spirito di Rachel Owen, ex moglie di Thom Yorke strappata alla vita lo scorso anno da una terribile malattia dopo che i due si erano separati di comune accordo. A lei è dedicato questo viaggio a ritroso fra i solchi di un'epoca che per i Radiohead ha rappresentato il massimo splendore. "OkNotOk" serve anche dare un'istantanea del grande momento creativo formatosi attorno a "Ok Computer". Diciamo subito che valeva la pena pubblicarli questi brani; non saranno perfettamente in linea col mood del disco, ma fotografano alla perfezione il momento di gloria creativa vissuto allora dalla band. I pezzi si agganciano più al precedente "The Bends", vuoi per la vena pop che affiora, vuoi per le atmosfere nel complesso meno intrise di pathos, ma non per questo meno efficaci. A stuzzicare gli appetiti ci sono ben tre inediti piazzati in bella mostra proprio all'inizio: "I Promise" e "Lift" sono piccole gemme di pop elettroacustico che correggono le titubanze di "A Moon Shaped Pool", e che non avrebbero sfigurato se piazzate a caso in un qualunque punto della discografia. "Man Of War" è, per chi scrive, la vera gemma del disco, un pezzo che rivede e corregge le intenzioni (nobilissime, intendiamoci) degli ultimi Marillion, da sempre attenti a quanto si muove in seno alla compagine di Thom Yorke. La solarità che distingue buona parte del disco dal suo fratello illustre tende gradualmente a sfumare nella seconda parte a favore di una maggiore affinità alle atmosfere di "Ok Computer" e di alcuni interessanti esperimenti fra cui citiamo "Pearly", "Palo Alto" e l'ambigua "Polyethilene".
Ne valeva la pena, quindi? Certamente sì, anche se non tutto è immediatamente collegabile a quei brani che hanno fatto la storia. Thom Yorke e compagni, però, non sono certo degli sprovveduti, mettersi in gioco su un'opera di tale caratura è qualcosa che va ben oltre l'aspetto commerciale, per cui tanto vale lasciare ancora una volta la parola alla musica che è qui più che mai, ancora una volta, su livelli altissimi.