Paradise Lost
Obsidian

2020, Nuclear Blast
Gothic

“Obsidian” rimane nostalgicamente ancorato alle origini musicali dei suoi compositori fino alla fine e riesce nell'impresa di includere al proprio interno una certa modernità e raffinatezza compositiva. 
Recensione di Alessio Sagheddu - Pubblicata in data: 15/05/20

Da cosa è data la longevità di una band, viene da chiedersi. Dal cambiamento? Dallo stare alle regole che l'hanno resa ciò che è? Dall'unione dei suoi membri? Le domande potrebbero essere numerose e variegate, ma forse è chiaro abbastanza da non pensarci eccessivamente. La longevità è cavalcare il tempo, lasciare che muti inesorabile senza snaturarci, è dedizione per ciò che si fa, è origine e presente: la longevità è sicuramente personificata nella musica dei Paradise Lost. Trentadue anni di carriera e non sentirli affatto, dove l'ispirazione sembra non essersi mai accasciata.


“Obsidian”, non è il classico album della band inglese, nossignore. Non è infatti eccessivamente innovativo eppure vario nel suo ricordo di preziose origini, forse stilisticamente lontano dal suo predecessore “Medusa” e sicuramente nostalgico, quasi a porgere la mano a quella musica che in fin dei conti ha dato origini stabili alla carriera dei nostri. La caratteristica principale di questo nuovo lavoro targato Paradise Lost è senza dubbio la raffinatezza, l'aristocrazia delle sue stanze sonore e quella melodia ricercata ben rappresentata fin dall'apripista “Darker Thoughts”, che con quel suo infuso acustico e raffinata melodia farà dubitare l'ascoltare che si accerterà di avere veramente tra le mani il nuovo album della band inglese. Seguono il singolo “Fall from Grace” e “The Devil Embraced”, classici episodi musicali che ci si aspetterebbe da Holmes&co. “Ghosts” viaggia su frequenze ben diverse, quasi come “un tuono che si fa largo attraverso il mare” (per citare lo stesso Mackintosh) e guidata da una batteria ben decisa, assume le sembianze di un'ode ai Sisters Of Mercy di “First and Last and Always” - dove invece era compito di "Amphetamine Logic" quello di smuovere le danze strambe di adolescenti diversamente popolari. La fosca verve, d'altri tempi di “Obsidian” trae la sua forza e garbo proprio da venature alla Siouxsie and the Banshees, vagamente The Cure, forse anche vicine a Peter Murphy e i suoi Bauhaus e si lascia andare a cori rarefatti e mai spensierati (“Forsaken”), sfoghi tutt'altro che sereni (“Serenity”), arpeggi sofferti e spettrali (“Ravenghast”) alternati a momenti dove ci si dedica nuovamente a sperimentazioni (la straziante “Ending Days”) e dinamismi strumentali inaspettati (“Hope Dies Young”). 

“Obsidian” rimane nostalgicamente ancorato alle origini musicali dei suoi compositori fino alla fine e riesce nell'impresa di includere al proprio interno una certa modernità compositiva. I nostri riescono a creare un album fluido, coerente e senza un vero e proprio passo falso che non si avvicina mai troppo al confronto vero e proprio con alcune realtà passate ma anzi ne incorpora l'ispirazione e il carattere stilistico. Non è da tutti. 




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