Ulver
15/02/14 - Bloom, Mezzago (MB)


Articolo a cura di Stefano Risso

Grande, grandissima attesa per il concerto degli Ulver in quel di Mezzago, dal momento che da quando i misteriosi norvegesi hanno deciso di intraprendere una costante e varia attività live, non erano mai giunti in Lombardia. Certo, nessuno ha vietato ai lombardi di prendere auto o mezzi per raggiungere città vicine come Torino o Parma, ad esempio, ma una collocazione settimanale favorevole come lo scorso sabato 15 febbraio ha sicuramente aiutato la buona riuscita di pubblico.

Anche perchè per raggiungere il Bloom non è propriamente agevole, delocalizzato e lontano da grossi centri urbani, oltre che piccolo e scomodo per il pubblico (palco basso a tarpare la visuale già a metà sala). Ma chi si accontenta gode e con gli Ulver sul palco è difficile non rimanere soddisfatti. A onor della cronaca, nella sala al piano superiore hanno aperto al serata i nostrani Rise Above Dead, autori di una buona prova che ha convinto i più, penalizzati però dalla maggior parte dei presenti già alla caccia della migliore posizione per i protagonisti della serata. Un’esibizione difficile da descrivere quella iniziata alle 23.30, come sempre quando ci approccia agli Ulver ogni commento o considerazione deve essere filtrata dalla propria sensibilità, costretti a fermarsi a ragionarci sopra oltre il dovuto per cercare di intepretare ciò che si ascolta e arrivare a una sintesi compiuta, che siano dischi o concerti nulla è semplice con Rygg e compagni.

 

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Perchè anche la performance dei norvegesi l’altra sera è stata qualcosa che va oltre un normale concerto, una sorta di metaconcerto in cui la quasi totalità dell’ora e mezza proposta poteva essere vissuta in pieno raccoglimento, nel silenzio (a parte qualche solito schiamazzo e richieste black metal inopportune) e a occhi chiusi, focalizzandosi esclusivamente sulla musica e sulle vibrazioni trasmesse, piuttosto che sui musicisti. Un cambio di prospettiva… Se di solito di va a vedere dei musicisti esibirsi live, con tutto il carico di curiosità, per gli Ulver si va più ad ascoltare, a provare un’esperienza sensoriale, dal momento che da vedere, detto brutalmente, c’è poco. O meglio, la scelta fatta per questa serie di date, spinge molto in questa direzione. Del resto la selezione della scaletta e l’atteggiamento dei nostri hanno facilitato questo passaggio. Una setlist che come ormai consuetudine ha relegato a pochi estratti la splendida voce di Kristoffer Rygg, sempre più impegnato a “smanettare” col suo iPad e strumentazioni varie, prediligendo la vocazione “elettronica” della formazione norvegese, lanciandosi in numerose e lunghe improvvisazioni più vicine a un dj-set piuttosto che a un concerto vero e proprio.

Del resto già l’impatto visivo a palco vuoto (oltre che una minima conoscenza della band) metteva subito in guardia: le ingombranti strumentazioni e il computer di Jørn H. Sværen e Tore Ylwizaker (quest’ultimo in un completo elegantissimo), ai lati della postazioni di Rygg, offrivano poco spazio agli strumenti più canonici. Segregati in seconda fila, e scarsamente visibili per i motivi accennati sopra, la linea ritmica di percussioni e piccola batteria, con il solo Daniel O'Sullivan “promosso” in un angolo in prima fila, diviso tra basso (molto) e chitarra (poco). Che dire, un’esperienza appagante senza ombra di dubbio, in uno show diviso tra brani conosciuti come "England", "Dressed in Black", "Glamour Box (Ostinati)", "Nowhere/Catastrophe", ecc, rielaborati per l’occasione e ampie parentesi di improvvisazione/sperimentazione, in cui la staticità e le movenze misurate dei nostri, unite alla voluta reiterazione e circolarità della musica proposta, ha permesso di non porre più l’attenzione sul palco ma verso se stessi, in una trance ipnotica di grande spessore. Dando infatti uno sguardo in sala erano più le teste ciondolanti assorte rispetto a quelle vigili con lo sguardo fisso sul palco, con più di uno spettatore accennare persino qualche passo di “danza”, un breve moto, niente di clamoroso, ma quel tanto che basta per auspicarsi un giorno la band impegnata in un dj-set in qualche club adibito a questo scopo, non ci sarebbe nulla scandaloso a nostro avviso.

 

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Come può essere questa la stessa band che ha partorito album come “Bergtatt” o “Nattens Madrigal”? È la domanda che ci si fa ogni volta che ci approccia all’ascolto degli Ulver, tante cose sono cambiate (l’unico superstite è il solo Rygg), dentro e fuori la band, ma superato lo stupore ci si accorge che lo spirito pionieristico, avanguardistico di quegli anni è solo mutato in un’altra forma. Per dirla alla Robert Fripp, gli Ulver “sono un modo di fare le cose” e non importa se l’interazione col pubblico è stata pari a zero, se i ringraziamenti dell’ex Garm erano così sottovoce da non arrivare a fondo sala, se i nostri alla fine si sono lanciati solamente in brevi e timidi saluti, le cose importanti erano ben altre.




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