Sette anni dopo il primo palazzetto italiano, Nick Cave e i suoi Bad Seeds tornano a riempire l’arena indoor più famosa del Paese. All’Unipol Forum di Assago, la liturgia più sentita e viscerale del mondo della musica riparte da “Wild God”, il nuovo album che aggiunge nuove note e nuovi colori al doloroso processo di redenzione nel quale Nick ci guida, tenendoci saldamente per mano.

Appena due anni fa, all’Arena di Verona, il cantautore australiano si scontrò con l’indomabile meteo, figlio del cambiamento climatico, che costrinse una rimodulazione della venue e aprì un ampio spazio impraticabile tra il palco e le prime file. “Il buco” – così venne battezzato da Cave stesso – è ormai entrato nell’immaginario dei fan italiani di King Ink, tanto che quella data viene ancora ricordata come “il concerto del buco”. Adesso si torna finalmente alla dimensione più congeniale, quella carnale, priva di barriere. Il suo palco finisce esattamente dove iniziano le braccia alzate della prima fila. Non c’è nessuna transenna: le mani dei fan sono le onde marine che bagnano la battigia, sulla quale il buon Nick passeggia con l’intenzione di lasciare impronte profonde.

“Wild God” è l’ultimo passo (ma non quello finale) di un percorso umano e artistico iniziato con “Skeleton Tree”, il disco del lutto permeato dalla devastante perdita del figlio Arthur. A quel tempo Nick Cave indagò gli spazi siderali dei luoghi più oscuri, per poi uscirne con in mano un distillato di dolore e cercare nuova forma in “Ghosteen”, il disco del superamento del cordoglio tramite l’amore e i legami. Tre anni dopo un altro figlio, Jethro, va incontro a una morte prematura, ma questa volta Cave non è intenzionato ad accettare nuovamente l’invito obliquo del buio. “Abbiamo avuto tutti troppo dolore, ora è il momento della gioia”. Da queste parole nasce “Wild God”, il tentativo più che riuscito di allontanarsi dalla tentazione di tuffarsi ancora in quel nero impenetrabile e abbracciare presente e futuro.

nickcave

“Frogs”, la title-track e “Song of the Lake” sono i primi tre brani, tutti nuovi e tutti estremamente espliciti sui toni della serata. “Bring You Spirit Down” è il mantra dello show, carico della tensione religiosa che Nick Cave da sempre crea con naturale maestria. La potente espressività canora da baritono, praticamente unica nel suo genere, penetra in profondità ed esplode dall’interno quando arriva il momento di “O Children”, introdotta da tutta la solennità che il brano richiede. Il risultato è travolgente. Addentrandosi nella scaletta ci si rende poi conto del grande disegno: un brano solo per quasi ogni disco, da “From Her to Eternity” dell’omonimo esordio a “Jubilee Street” di “Push the Sky Away”. Nick Cave non lascia indietro quasi nulla, e dà un senso molto chiaro alle parole proferite da James McGovern qualche ora prima: è uno spettacolo formativo, dice il frontman dei The Murder Capital, l’opening act di questo tour. E ha ragione: è una lezione di due ore e mezza per chiunque faccia musica o spettacoli dal vivo.

Pur stando immersi in una folla di undicimila persone, si ha l’impressione che quella voce gutturale stia cantando direttamente a noi, solo per noi. Si è una goccia nel mare, ma si ha anche la sensazione di essere l’unica in grado di dissetare Nick Cave e che per questo lui stia proprio cercando di arrivare a noi. C’è chi si avvicina, chi cerca di afferrargli le gambe, chi piange disperatamente e chi non può fare a mano di spalancare la bocca sgranando gli occhi, incredulo davanti a ciò che un quasi settantenne riesce a fare sul palco.

I Bad Seeds dal canto loro sono sempre di più e sempre più saldamente guidati da un Warren Ellis irresistibile. Il suo proverbiale show nello show non conosce più confini e se non avesse davanti a sé uno dei più grandi artisti viventi, sarebbe quasi impossibile staccargli gli occhi di dosso.
Doveroso ricordare anche che al basso c’è Colin Greenwood, il bassista che Radiohead che, in attesa che il fratello e Thom Yorke mettano a riposo i loro The Smile, si è unito ai Bad Seeds sia in studio che in tour. La sua è una presenza discreta, ma che aggiunge ancora più energia a una formazione che emana già di per sé un’aura inaudita.

Se Nick Cave sia o meno il miglior performer di sempre del rock alternativo è argomento di discussione da decenni e ancora oggi, con più di cinquant’anni di carriera sulle spalle, è assolutamente lecito rispondere affermativamente. Ma il “sì” diventa perentorio nel momento in cui si parla di coinvolgimento, perché un artista capace di annullare con tale facilità la distanza palco-platea non si è mai visto.

Setlist

Frogs
Wild God
Song of the Lake
O Children
Jubilee Street
From Her to Eternity
Long Dark Night
Cinnamon Horses
Tupelo
Conversion
Bright Horses
Joy
I Need You
Carnage
Final Rescue Attempt
Red Right Hand
The Mercy Seat
White Elephant
O Wow O Wow (How Wonderful She Is)
Papa Won’t Leave You, Henry
The Weeping Song
Into My Arms

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