Band nuova di zecca e dalla composizione internazionale, i Bloodorn hanno esordito lo scorso 24 maggio, su Reaper Entertainment, con “Let The Fury Rise”, album che trasuda un power metal dal taglio estremo e nel quale velocità, potenza e un pizzico di Children Of Bodom si fondono a meraviglia. Ne abbiamo discusso con il bassista Francesco Saverio Ferraro, che, oltre a spiegarci i tanti particolari del disco, si è prodigato in un racconto ad ampio raggio, tra Freedom Call, Vexillum, varie ed eventuali. Che l’aquila di sangue vi torturi piacevolmente le orecchie.

Ciao Francesco e benvenuto su SpazioRock. È un grande piacere conoscerti.

Grazie, anche per me.

Iniziamo a familiarizzare con la nuova band in cui sei coinvolto, ovvero i Bloodorn, che hanno lo scorso maggio hanno dato alle stampe il terremotante esordio “Let The Fury Rise”. Come sei entrato in contatto con Nils Courbaron dei Sirenia, di fatto il fondatore di questo progetto?

I Bloodorn sono nati dal volere di Nils Courbaron, ascia dei Sirenia, un gruppo symphonic metal con determinate caratteristiche, ormai sono una formazione storica che suona da più di venticinque anni. È entrato in line-up nel 2018 come chitarrista principale, ma, per quanto riguarda la composizione dei loro brani, non poteva modificarne troppo lo stile; lui, invece, aveva questa intenzione di creare qualcosa di più moderno, anche con elementi estremi e, comunque, diversi rispetto al power metal classico. E la pandemia, con il totale stop delle varie attività live,  ha dato la possibilità a Nils, nonostante lavorasse come infermiere, di impegnarsi e di avere il tempo di buttare giù le basi per il progetto Bloodorn. L’idea è nata, dunque, nel 2020 e Nils e io già  ci tenevamo in contatto spesso e volentieri tramite social, cercando il modo di formare una band, progetto di cui avevamo parlato tante volte. A lui piaceva il mio lavoro nei Freedom Call, io ero e sono un fan dei Sirenia, ma non c’era mai stata l’occasione, prima del lockdown, di discutere seriamente di ciò poi che si sarebbe trasformato nei Bloodorn. Lui mi ha detto: “Guarda, ho buttato giù un po’ di idee, in questa cosa mi segue anche Michael Brush (batterista dei Sirenia, ndr”). E ho trovato un cantante su YouTube (Mike Livas, ndr) con cui ci stiamo sentendo”. Mi manda la bozza della prima canzone, l’attuale “Under The Secret Sign”, che poi è stato anche il nostro primo singolo. Ho pensato: “Non è il mio genere classico, ma mi piace questa cosa che richiama Gamma Ray e Beast In Black, che esula dal solito standard”. E allora ho detto ci sto, mi va. E così sono nati i Bloodorn. Ci tengo a precisare che non si tratta soltanto di uno studio project, ma di una vera e propria band.

“Let The Fury Rise” è un disco nel quale i vettori d’obbligo sono la potenza e la velocità. Dove avete lavorato in sede produttiva per ottenere un suono così massiccio, ma non plasticoso?

Ci siamo trovati tutti insieme per fare il mixaggio e il mastering finale al Vamacara Studio, uno studio in Francia che ha già prodotto i Drop Dead Chaos di Nils, oltre a lavorare in diversi ambiti di metal estremo. Fra le altre cose, si era anche occupato dei Bodom After Midnight, il progetto di Alexis Laiho prima che lui ci lasciasse, quindi è uno studio abituato a operare sulle tonalità più extreme.

A livello di songwriting, si nota come l’influenza del death più tecnico diventi un elemento importante per ottenere dei pezzi capaci di andare oltre i classici stilemi power metal. Sei d’accordo?

Hai pienamente ragione. Nils, per la scrittura, si ispira molto ai Necrophagist e ai The Black Dahlia Murder, oltre che ai già citati Beast In Black e ai classici del power. Nils possiede una grande cultura del technical death metal, gli piace davvero tanto, così come gli piacciono molto i Children Of Bodom e il modo di suonare e comporre del compianto Alexi Lahio, quindi ha voluto proprio mettere in campo tutte queste influenze e creare un qualcosa di estremo sotto vari punti di vista. Affiancare, inoltre la voce pulita di Mike e il growl di Raf Pener, compagno di Nils in Dropdead Chaos e T.A.N.K., un accostamento che nel power si sente davvero molto poco, è una cosa innovativa. A memoria, soltanto i Kamelot hanno fatto qualcosa del genere con Alissa White-Gulz.

Sempre a proposito della scrittura dei pezzi, c’è anche la tua firma? O Nils ha pensato a tutto?

Fondamentalmente i brani, dal punto si vista musicale, sono opera di Nils. Credo che Michael ci abbia messo un po’ le mani, una cosa che, considerato il suo ruolo di batterista, ha dovuto fare soprattutto per poterli suonare live. Per quanto mi riguarda, ho seguito molto la linea di Nils perché, se avessi lavorato in modo indipendente, il basso avrebbe inevitabilmente preso una piega di power metal classico, quindi ho voluto seguire le indicazioni che mi sono state date senza metterci troppo di mio, semplicemente aggiustando qualcosa, ma più che altro si è trattato di diteggiatura e di attacchi su davvero pochi aspetti. Anche per le linee vocali, Nils si è fatto aiutare da un suo amico con cui aveva già collaborato, mentre io mi sono permesso, visto che me lo ha chiesto direttamente lui, di occuparmi dei testi.

Quindi le liriche sono state di tua esclusiva pertinenza.

Sì, tutti i testi sono passati dalle mie mani. Credo di non aver toccato assolutamente “Under The Secret Sign”, perché lì ci ha pensato Mike, mentre in “Six Wounded Wolf” ho solo corretto l’inglese, visto che il testo aveva già un’idea ben definita. Per il resto, alcune cose ho dovuto proprio cancellare e rifarle daccapo. Avevo una linea vocale e ci ho dovuto lavorare sopra.

A cosa ti sei ispirato per la redazione dei testi? Ci sono dei temi portanti?

Sì, a livello di idee ci sono diverse cose, dai miti, specialmente il mito normanno e, in generale,  quello nordico, a pensieri, sensazioni personali, fatti, eventi, anche videogiochi. Ad esempio, “Under The Secret Sign” è ispirato alla saga di Assassin’s Creed. In ogni brano, comunque, c’era la volontà di trasmettere un impulso di rivolta, di qualcosa che non ci va bene, una rabbia che ci bolle dentro. Questo perché c’è sempre qualcuno che vuole calpestare i diritti delle persone, che è risoluto ad avvalersi di un potere che non gli spetta, che magari potrebbe gestirlo per il benessere collettivo, ma lo utilizza unicamente a proprio vantaggio, Nei Bloodorn si sente la ribellione, la volontà di combattere insieme, di rialzarsi e di non fermarsi mai. Un sentimento motivazionale di cui avevamo bisogno, cresciuto soprattutto durante la pandemia, quando eravamo tutti reclusi. Pensa, io avevo iniziato a fare il musicista professionista da nemmeno un anno. Mi sono ritrovato chiuso in casa subito dopo.

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La pandemia ha avuto il merito di compattare e rilanciare molte band, mentre ne ha distrutte altre.

È inutile girarci intorno: senza l’attività live, le band non sopravvivono, è un problema a livello economico. Durante la pandemia, gente come Marko Hietala dei Nightwish non riusciva a sopportare di non poter guadagnare, non ce la faceva a gestire i ritmi di un gruppo senza ricavi. Puoi immaginare come le band siano costrette a fare dei sacrifici incredibili.

A scorrere la tracklist, difficile scegliere i pezzi migliori, da “Under The Secret Sign” a “God Won’t Come” passando per la title track, tutti possiedono una combinazione di furore, sangue ed eleganza che lascia piacevolmente storditi. Hai qualche brano che ti sta particolarmente a cuore?

Penso ai pezzi in ottica live, a quali potrebbero funzionare meglio, a prescindere dal mio gusto personale. Secondo me, dal vivo, la title track verrà molto bene, più che altro per il botta e risposta del coro, con tutta la gente a gridare “Bloodorn, Blododorn”. Immagino già la folla rispondere cantando il nostro nome, tra l’altro molto semplice, è una cosa che trascina. A me piacerebbe tantissimo anche suonare “Forging The Future (With Our Blades)”, a livello personale è una delle mie preferite da suonare, ha un bel testo e un andamento piuttosto cantilenante. Gli altri pezzi hanno dei range un po’ più complicati, però anche “Under The Secret Sign” è adattissima alla performance on stage, è molto più cadenzata, ritmata, lavorata bene, ha parecchie pause che ci consentiranno sia di andare qui e là sul palco sia di gestire il pubblico, di intrattenerlo.

Non potevo non farti una domando circa la rilettura di “Square Hammer” dei Ghost, una scelta rischiosa anche perché si tratta di un brano piuttosto recente. Volevate spiazzare gli amanti del power metal?

Tra le band “grosse” che Nils ama e di cui vorrebbe interpretare i pezzi, ci sono gli Iron Maiden e soprattutto i Ghost, che hanno avuto un successo enorme in breve tempo e sono abbastanza moderni. Noi siamo tutti fan del power metal classico, ma volevamo un po’ staccarci da esso. Così abbiamo modernizzato i suoni, la scrittura, i testi, la visual del gruppo. Nils aveva già fatto delle cover dei Ghost, ovvero “Kiss The Go-Goth” durante un provino online con Mike sia la stessa “Square Hammer” con i Sirenia, insieme all’ex vocalist dei Temperance Alessia Scoletti. Quest’ultima versione l’abbiamo rimaneggiata e adattata alle caratteristiche dei Bloodorn e ci è piaciuta parecchio, anche perché i Ghost hanno un sound che esula dal metal vero e proprio. E ci ha permesso di creare un pizzico di sorpresa tra gli ascoltatori.

Restando ai Ghost e all’importanza che riveste per la band di Tobias Forge l’aspetto estetico e visivo, pensi che anche i Bloodorn possano seguire la medesima strada scenica?

Sì, nelle foto promozionali abbiamo un cappuccio e una specie di tonaca. Al momento, tuttavia, non ci viene naturale creare un costume, perché se non lo fai spontaneamente, se non hai qualcosa che ti spinge a farlo in maniera automatica, il tutto sembrerà troppo costruito. Quando non è un atto genuino, la gente se ne accorge. A livello scenografico, in verità, ci piacerebbe di più giocare con gli effetti prop sul palco. Sempre dal punto di vista visivo, ti anticipo che il personaggio mostruoso con le costole rotte dietro la schiena che compare in copertina, Bloodorn, sarà come Eddie degli Iron Maiden e ci accompagnerà per tutte le cover future in diverse forme e aspetti.

A supporto di “Let The Fury Rise” sono stati girati ben quattro videoclip, con un paio di essi davvero interessanti per il lavoro che c’è dietro e le personalità coinvolte.

Vero, abbiamo investito molto su questo aspetto. A parte “Let The Fury Rise”, abbiamo girato tutti gli altri video in green screen separati. La clip di “Under The Secret Sign” è stato editata da René Berthiaume, drummer degli Equilibrium, poi abbiamo realizzato quella per “Bloodorn”, in cui hanno partecipato parecchi ospiti che, in realtà, cantano soltanto nel video e non nel disco. Abbiamo avuto, tra gli stranieri, Zoe Marie Federoff e Marek “Ashok” Šmerda dei Cradle Of Filth, Daniel Löble degli Helloween, Ryoji Shinomoto dei Ryujin e tanti altri amici e colleghi che si sono prestati volentieri a questa cosa, mentre, per quanto riguarda l’Italia, hanno presenziato Gatto Panceri 666 dei Nanowar Of Steel e Steva e Frater Orion dei Deathless Legacy. Nel lyric video di “God Won’t Come”, invece, ci sono Nicoletta Rosellini degli Alterium e Raf Pener. Tornando a “Bloodorn”, dimenticavo di dirti che lo abbiamo girato in Italia nello studio di Frater Orion, che è il batterista, il regista e l’editor del videoclip.

Ma oggi il gioco vale ancora la candela?

Credo che, al momento, il videoclip abbia un impatto ancora più grosso rispetto a una volta. Negli anni ’90, se una canzone approdava su MTV, era già passata attraverso la radio o da qualche altra parte, magari la band in questione aveva già fatto dei tour. Raramente ci arrivavi da zero, c’era una produzione dietro che ti consentiva di avere una certa visibilità. Adesso la maggior parte delle cose le devi fare da solo. E secondo me, ultimamente, abbiamo avuto un buona ripresa generazionale dell’ambiente metal e rock, soprattutto per quanto riguarda i giovani. Qui abbiamo un festival, il Firenze Metal, pieno di giovanissimi spettatori che occupano le prime file, con un’età che va dai diciassette ai ventuno anni. Una cosa bellissima, incredibile. Adesso, grazie ai social, i ragazzi non ascoltano più la musica alla radio. La radio per loro non esiste. Ascoltano su Spotify e vedono su YouTube. Quindi, quando fai una clip che richiama l’attenzione e le persone la ricondividono sia per il video sia per la canzone, questa inizia a girare. Il metal, tendenzialmente, è uno di quei generi che fa più attenzione al dettaglio, al visivo, alla storia, al fatto che le band, soprattutto agli inizi, girano un video per passione, non hanno un’idea prestabilita né un regista che impone loro qualcosa. Certo, si tratta sempre di lavorare a un livello più o meno professionale e girare un bel video aiuta a produrne altri, ma, visto che il canale di trasmissione principale oggi è il mondo dei social, le clip, comunque, raggiungeranno un pubblico molto più vasto rispetto al passato.

Un pubblico che, attualmente, prende d’assalto i concerti, soprattutto in ambito metal.

Assolutamente. Prima pensavi continuamente e con tutta tranquillità: “Ci vado o non ci vado?”. Dopo la pandemia, le persone hanno paura che il concerto possa saltare, nulla sembra più garantito. Dopo essere stati chiusi tanto tempo, la gente, oggi, vuole andare fuori, divertirsi. Poi, diciamocelo, l’ambiente metal è completamente l’opposto di quello che viene sempre fatto credere. Raramente ci sono problematiche, disturbi della quiete e cose del genere. L’unica cosa che disturba è la musica alta. Per chi non è abituato, beninteso. È un ambiente nel quale la gente si ritrova per stare bene, per stare in amicizia, per bere una birra, per ascoltare la musica, per fare due chiacchiere, per vedere anche chi non vedi mai, perché molti si ritrovano soltanto ai concerti.

Passiamo ai Freedom Call, nei quali militi da cinque anni e il cui nuovo album, “Silver Romance”, è stato da poco rilasciato su Steamhammer. Rispetto allo scorso e un po’ stanco “M.E.T.A.L.” (2019), non credi questo disco così fresco e accattivante riporti il gruppo ai livelli di un tempo?

Tra questi due album sono passati cinque anni, però, in realtà, è come se ne fossero trascorsi soltanto tre per colpa della pandemia, ovviamente. Da allora, comunque, è cambiata la produzione musicale, perché il mixing non è più stato fatto dallo studio dove lavoravamo prima, ma adesso è in mano al nostro chitarrista Lars Rettkowitz. Lars ha quindici anni in meno rispetto al nostro vecchio produttore musicale, quindi si sente che, a livello di sonorità e di inventiva, è un pochino più moderno e le cose che fa hanno meno la natura del già sentito. E, soprattutto, non lavora soltanto col power metal, ma anche con diversi altri generi, e di conseguenza, quando c’è qualcosa che gli piace, ci mette mano, crea, sperimenta. Tra le altre cose, sempre Lars ha avuto più voce in capitolo con le canzoni. Cinque brani sono stati scritti da lui, mentre Chris Bay, dovendo comporre meno, ha potuto concentrarsi al massimo sulla creatività e sull’attenzione ai dettagli, cose che comunque cerca di fare sempre. Poi, volevamo un po’ ripartire alla grande, visto che “Silver Romance” cadeva nel venticinquesimo anniversario di attività dei Freedom Call. L’intento di Chris era richiamare all’orecchio i primi album, un modo per affermare che i Freedom Call erano ancora in grado di fare le cose come una volta, senza stanchezza. Certo, all’epoca era un progetto nuovo, erano altri anni, c’era un altro tipo di verve. Ma Chris ha voluto dire: “Siamo sempre quelli, siamo sempre gli stessi, l’energia è la medesima”. Rispetto a “M.E.T.A.L.”, che era un disco “dovuto”, benché, consciamente, non si realizzino mai album per questi motivi, qui ha vinto il desiderio di ribadire il concetto che, nonostante sia passato un quarto di secolo, la band non è invecchiata. E lo posso confermare, anche se allora non ero nel gruppo.

Cosa puoi dirci, invece, della tua militanza nei Vexillum?

A loro devo moltissimo. Quando ho iniziato a suonare con i Vexillum, tante cose non le conoscevo, neanche le band storiche del metal. Sino ai vent’anni, i miei gusti si concentravano sul punk melodico dei Blink-182 e dei Green Day e non pensavo neanche di imbracciare uno strumento. Mio fratello, poi, mi ha portato il primo CD metal, “Symphony Of Enchanted Lands”, e da quel momento ho messo metto da parte i gruppi precedenti, che avrei continuato ad ascoltare per divertimento, e iniziai ad approfondire i Rhapsody. In seguito andai a vedere i Nightwish dal vivo, era il tour per supportare “Once”. Quando vidi Marko Hietala sul palco, dissi a me stesso che volevo suonare in quel modo e così ho iniziato con il basso. Ho ascoltato altre cose, intanto sono andato a vivere in Inghilterra per un po’ di tempo, poi mi sono laureato e infine ho iniziato ad apprendere il mio primo basso e a venticinque anni sono entrato nei Vexillum, che mi hanno aperto un mondo, tanto che il mio modo di suonare l’ho imparato insieme a loro, con cui sono rimasto sedici anni. In quel periodo ho cominciato ad andare a scuola di musica e a prendere lezioni di piano su consiglio dei due chitarristi Michele Gasparri e Andrea Calvanico, che oggi non è più nella band. Loro mi hanno indirizzato per i primi passi insieme all’altro chitarrista Francesco Caprina, che è un direttore di scuola di musica e che mi ha insegnato molto a livello di armonia. La mia formazione, dunque, viene dai Vexillum, sono loro che mi hanno “plagiato” e mi hanno fatto diventare un vero musicista da quelle due note che mettevo in croce. Con loro ho fatto i primi tour europei di spalla ai Rhapsody Of Fire e sempre grazie ai Vexillum ho conosciuto i Freedom Call.

Come mai ne sei uscito? Sembrava funzionasse tutto a meraviglia …

A inizio anno ho lasciato il gruppo. Sono rimasto comunque in ottimi rapporti, però, semplicemente, avevamo differenti opinioni musicali, ma soprattutto diversi modi di lavorare. Io sono più frenetico. Voglio fare più cose. Voglio essere costantemente impegnato. Loro, giustamente, hanno avuto altre esigenze: c’è chi ha famiglia, chi ha tipologie di lavori che non consentono di andare via in tour regolarmente. Quindi, quando mi sono accorto che ero io l’unico che si staccava dal pensiero della band, non volevo più mettere bocca su di essa, non volevo essere io l’elemento di disturbo né volevo creare attriti. Così ho compiuto un passo indietro per fare altro.

Decisione ragionevole, visto che, come hai accennato prima, per te la musica, diversamente da altri colleghi, è anche un lavoro.

Quando arrivi a suonare da adulto e ti interfacci con il mondo lavorativo della musica non a un’età adolescenziale, vedi tante cose diverse che prima non avresti potuto vedere, quindi sai la differenza che c’è. Io mi rendo conto dal lavoro che svolgevo prima e di quello che faccio ora, e mi ritengo privilegiato in una maniera incredibile. Posso viaggiare per lavorare, mi pagano per andare in Sud America, in Finlandia, vedo dei posti nuovi. La maggior parte delle volte li vedo in tour bus, li osservo dai sedili del van, guardo i paesaggi dal finestrino, ma sono in giro per il mondo, mi dirigo da persone che aspettano di vedermi su un palco e mi sento fortunato nel suonare, so di esserlo. È un lavoro sotto tanti punti di vista, devi fare dei sacrifici, devi fare determinate cose, però, poi, la restituzione è tanta. Insomma, anche nei momenti più duri, non sei certo in miniera!

D’altro canto, sei ancora nella line-up degli Arteban’s Redemption. Qual è attualmente lo stato dell’arte?

Mi sono sentito poco tempo fa con Roberto Cappa. Anche lui ha, purtroppo, tante cose che lo impegnano, come nella vita di tutti. Davvero tante cose. Ma non ci siamo fermati, anzi, abbiamo già iniziato a lavorare su diversi brani. Gli Arteban’s Redemption sono più uno studio project,  sarà difficile andare oltre, anche perché Roberto ha cambiato lavoro e adesso lui è molto più fermo per quanto concerne la fase compositiva. Qualcosa è partito, quindi qualcosa c’è. È un progetto leggermente diverso dal solito power, ha dei movimenti un po’ più prog sia per il modo di suonare la batteria di Álvaro Weik che per la voce di Ivan Giannini. Anche lì, quindi, mi sono messo un po’ in gioco, cercando di andare oltre gli schemi. Il power, solitamente, è un genere classico, di solito si tende a implementare con orchestre o con i suoni piuttosto che modernizzarlo nel profondo.

Torniamo ai Bloodorn e alle tempistiche per quanto concerne l’attività live. Ci sono novità in questo senso?

Siamo focalizzati al fine di portare i Bloodorn in sede live, ma adesso stiamo lavorando ancora sulla promozione, le riviste, la risposta del pubblico e degli addetti ai lavori. Noi speravamo di fare qualcosa che avrebbe potuto avere una buona riuscita, ma non immaginavamo così tanto supporto e così tanta risposta positiva da parte di tutti quanti. Il giornalista che mi ha intervistato per lo Sweden Rock Magazine mi ha detto che lui aveva ventiquattro anni quando sono usciti negli anni ‘90 i vari Hammerfall e Rhapsody, quindi ha vissuto in pieno l’epoca d’oro del power. Ascoltando i Bloodorn, si è ritrovato ad avere le medesime emozioni di un tempo, perché “Let The Fury Rise” è qualcosa di nuovo nell’ambito del genere e mi ha fatto un’impressione incredibile sentirmi dire una cosa di questo tipo. Per me, era uno dei migliori complimenti che potessi ricevere. Come ti dicevo, i Bloodorn non sono uno studio project, sono una band che deve andare live, deve andare bene, dobbiamo gestire le possibilità e le tempistiche in maniera ottimale, ma sappiamo quello che vogliamo fare, stiamo cercando di entrare in alcuni festival, non per questa stagione ovviamente, perché i promoter aspettavano di avere le notizie riguardo ai numeri dei video che, tra l’altro, stanno andando benissimo. Abbiamo già avuto qualche offerta per l’anno prossimo, quindi non tarderemo ad arrivare. Ti darò un anticipazione: a parer mio, dal vivo dovremmo portarci un altro chitarrista, non sappiamo se sarà un turnista o se amplieremo l’organico.  

La composizione internazionale della band potrebbe crearvi qualche problema logistico in merito ai concerti?

Dipende, sicuramente se fossimo stati tutti più vicini saremmo potuti partire anche da realtà più piccole, però con i Bloodorn l’idea è quella di puntare un po’ più in alto. Tante band da un certo livello in su hanno sempre o quasi sempre almeno un musicista che non è della stessa zona, quindi, di solito, la cosa si risolve con qualcuno che deve viaggiare. Io vivo in Italia, ma sono abituato a viaggiare per andare in Germania; quelli un pochino più lontani e dalla logistica complicata sono Michael dall’Inghilterra e Mike dalla Grecia, ma in entrambi i casi, se non si prende un aereo, non si va da nessuna parte a prescindere. Alla fin fine, dunque, le cose erano già note in partenza. Loro sanno che il metal, di base, nasce nell’Europa continentale. Gli eventi principali si svolgono lì, quindi, in un modo o in un altro, lì dobbiamo arrivare.

Francesco, grazie mille per l’intervista. Quale messaggio vorresti condividere con i lettori di SpazioRock e il pubblico della musica in generale?

Grazie per la disponibilità che avete concesso ai Bloodorn. Continuate a seguire SpazioRock perché, come vedete, dà voce a band underground che crescono, perché, senza l’underground, non si va da nessuna parte. Se non c’è un recinto, non c’è più il metal. Buona lettura e buon ascolto.

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