Leggi qui il racconto della prima e della seconda giornata

Quando la sicurezza decide che non puoi passare, non passi. Per mia fortuna però Levre degli Ufomammut è una persona cordiale ed è lui a recuperarmi sul retro dell’Electric Ballroom dove hanno finito di esibirsi un’ora prima. Con il resto della band (Urlo e Poia) e altri loro amici facciamo un isolato a piedi e prendiamo da bere fuori al Devonshire Arms, la sesta venue del Desertfest, per dimensioni. Ovviamente fuori, perché il Dev è una di quelle venue dove o ascolti chi sta suonando o ascolti chi sta suonando, non hai scelta se stai dentro. Non ti va? Devi fare due chiacchiere? Devi rispondere a una telefonata? Devi accomodarti fuori, e comunque devi concentrarti, perché il volume arriva bello forte anche fuori.

Gli Ufomammut (al loro decimo album in carriera, “Hidden”, uscito da una settimana) erano a Manchester la sera prima e sono alla volta di Glasgow all’indomani, e io in ogni caso mi sincero che facciamo pausa in albergo. A pensarci bene, li ho trovati svegli. Tra un’analisi della scena londinese, britannica, europea e italiana, menzionando una valanga di meritevoli band italiane, l’importanza del non mettere una bandierina vicino ai nomi delle band (la musica è un linguaggio universale, come si suol dire) e di evitare quel campanilismo improvviso quando qualcosa poi arriva a livello internazionale. Ora che ci penso, parere mio, l’Eurovision andrebbe abolito, in tal senso. Sicuramente qualcuno ne avrà fatto una petizione. Desertfest a parte, il bello di esser a Londra pare innegabile per loro, soprattutto quando Levre parte alla volta del suo secondo ramen della giornata e sono lieto di essermi sincerato che si avviassero nella migliore catena di cucina giapponese qui a Londra. Insomma a me interessa che gli artisti riposino e si nutrino in modo gustoso e sano (occhio all’ipertensione col ramen). A giudicare dalle persone che si fermano a complimentarsi con loro, posso decisamente dire che il loro set è piaciuto e pure parecchio, l’esperienza di dieci album e anni e anni on the road non mentono.

La venue che non ho ancora visitato in chiave Desertfest è il Dingwalls, grossissimo locale a ridosso di un crocevia di canali, solitamente identificato come Camden Lock. Trovare l’ingresso giusto non è mai facile e sistematicamente entri dal lato ristorante e devi percorrerlo nella sua interezza per arriva alla davvero bella sala da concerto. C’è molta luce fuori ma piombo nell’oscurità ora, sono appena passate le cinque, e il Dingwalls mi inghiotte circondandomi dal suono pieno e preciso dei Lodestar di Heitham Al-Sayed. Voce, chitarre, basso e batteria. Presenza e brani convincenti. Incontro la band appena dopo il loro show, affacciandoci nuovamente alla luce del sole, su uno dei canali di Camden. Noto una di quelle cose che lasciano meravigliosamente perplessi: stanno bevendo da una lattina con su scritto Liquid Death. Cosa stavano bevendo? Acqua. Mi dicono che era nel rider, ci ridiamo tutti un po’ su, per un nome del genere, ma poi in seguito scopro di questa geniale mossa commerciale made in USA. Rimango poi con Heitham, il leader dei Lodestar, di cui scopro una cultura musicale fuori dal comune e, tra il parlare del bello di essere tornati dopo più di vent’anni con l’album nuovo (“Zonen”) e cosa significhi davvero essere presenti lì, insieme ad altre band, lui mi confessa che uno dei suoi piaceri maggiori è notare (vuoi con una maglietta d’epoca, vuoi con un autografo) quante persone non avessero dimenticato il loro esordio a metà degli Anni Novanta.

OzricTentacles
Ozric Tentacles

Cammino, torno al Black Heart ad aggiustare qualche appunto, ormai gli schemi e i consigli di Johnny e Micky sono saltati. È come se tutto confluisse nella musica, nell’abbigliamento e nello stile, tutto il teso, tutto il violento, e non quindi rimanesse nulla dentro, ma solo sulla pelle, nei tatuaggi, ma nulla invece dentro le persone, rimaste pure a modo loro, o purificate tramite il rito della musica “che non è musica ma è rumore”, proprio quando il rumore diventa angoscia, cruda e agonizzante, abominevole, abissale. Tutto questo impacchettato in un prodotto musicale, e quindi clamorosamente esorcizzato, a favore della vita stessa, vissuta in maniera più spensierata e leggera.

Il piatto forte per me della domenica non possono che essere gli Ozric Tentacles. Si esibiscono all’Electric Ballroom alle sette di sera, per una lunga ora di pesante psichedelia, loop e immagini su immagini, liquidi frattali che sembrano voler trasformare la Ballroom in qualcos’altro, non so se un’astronave, una nuova creatura vivente o più semplicemente un forma di performance art, più che un concerto. C’è ovviamente più chiarezza nei suoni rispetto alla media molto più distorta e gonfia del palinsesto, e in questo gli Ozric Tentacles si distaccano decisamente dal resto, forse proprio un po’ come i Suicidal Tendencies della giornata precedente. Eppure in ogni caso ho la sensazione che, vuoi per le impostazioni “di base” del mixaggio della sala in questa tre giorni, anche gli Ozric Tentacles suonino molto più duri e pesanti di quello che mi aspettavo. Impossibile definirne la ragione, e magari si tratta solo di una mia impressione, ma effettivamente in fin dei conti sono molto più amalgamati con il festival di quanto mi sarei aspettato a priori.

Esco per un giro di ricognizione (e per mangiare) ma rientro brevemente nell’ariosa bolgia dell’Electric Ballroom per assaggiare i Godflesh, il duo industrial/post-metal di Birmingham, tra gli artisti di punta del Desertfest. Che fossero due o duecento… sarebbe cambiato poco: Justin Broadrick e G.C. Green riempiono l’aria con dei suoni che vanno a sconquassare le parti più basse della gamma sonora umanamente percepibile. Mi ritrovo nuovamente con quella sensazione di assistere a un rito, lento e profondo anche se non riesco a percepirne l’essenza, se sia una questione di far parte della scena o di volerne accettare semplicemente l’esistenza, la differenza credo tra partecipare o rimanere a guardare, nonostante dal di fuori possa sembrare la stessa cosa. Uno spettacolo pazzesco, per chi crede, comunque. Ormai a sera inoltrata ritorno all’Underworld, e stavolta provo una sensazione diversa, più familiare, non so se dovuta ormai all’effettiva dimestichezza con le varie location… ma invece è la musica stessa che mi genera una sensazione di ritorno a casa, sempre nei limiti del Desertfest: gli Astroqueen, dalla Svezia fin dal 1998, stanno spiattellando un rock schietto e sincero, distorto e tagliente, spruzzato di blues, veloce, insomma di botto mi ricordano gli Iron Maiden, una delle basi di molto di quello che ho visto finora, magari insieme ai Black Sabbath, Kyuss o i Sepultura. Purtroppo per me e il mio tempismo, il loro concerto finisce alla fine di questa lunga cavalcata sonora, permeata di questo suono vintage eppure mai ammuffito. Può bastare, per questa terza e ultima giornata.

UnderworldDesertfest
Underworld

Torno a casa pensieroso, non faccio tardi domenica. Ho ascoltato tante band con musica a volumi pazzeschi per tre giorni ma avendo, come quasi tutti i presenti, usato dei buoni tappi per le orecchie non ho alcun dolore o ronzio, e non lo avvertirò nemmeno nei giorni seguenti (proteggere le proprie orecchie, sempre – questo il messaggio). Il vero dolore lo avverto alle gambe, mi rendo conto che il continuo gironzolare mi ha fatto macinare parecchi chilometri nonostante la relativa vicinanza delle sei venue, che comunque appunto erano ben sei, mica due. Dicevo, torno a casa pensieroso. Ho visto tanto, sfiorato la superficie di una vasta scena musicale e artistica che, in barba al mondo che cambia, si mantiene fedele alle proprie origini, ai propri dogmi e alle proprie incrollabili certezze pur chiaramente lasciando la porta spalancata tanto a nuovi adepti quanto, soprattutto, a nuove idee.

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