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L’elenco delle band al Desertfest conta settantuno nomi. Settantuno. Nota a margine (e se ho guardato bene), non vi è un solo artista che si presenta come “solista”, in un modo o nell’altro, tutti usano un nome per l’intero gruppo. Spirito di abnegazione? Famiglia? Comunità? Con il passare delle ore questi pensieri si sono fatti sempre più analitici, nella mia personale tre giorni di osservazione del deserto. L’atmosfera, che sulla carta dovrebbe trasudare vento caldo misto a terrore, condanna, rombo di motori, morte, incubo e orrori di ogni genere, invece si presenta come un festival qualsiasi, anzi come un festival dove la fratellanza, il rispetto e l’amore per la cosa comune raggiungono vette da figli dei fiori -quegli originali, non quelli su TikTok – e qui prendo la palla al balzo per esternare la mia personale letizia nel notare il numero letteralmente insignificante di smartphone tenuti accesi durante i concerti, come invece siamo tutti abituati a vedere durante qualsiasi altro raduno, di qualsiasi altro genere. Dove ce ne sarebbero stati cinquanta, con la mano bloccata a riprendere, forse ce ne sono due, ma anche zero, spesso e volentieri. Tutte le sei venue sempre piene o quasi piene, a qualsiasi orario, e sempre colme di appassionati a cui chiaramente non interessa portarsi a casa un giga-byte di content da sciorinare a un personale pubblico immaginario. Una foto ogni tanto e via. Lo spettacolo si vede, si sente, si gusta: sembra – come già detto – spesso di essere presenti a dei riti pagani, fate voi il versante del credo professato. È sabato e non vedo perché non renderlo il mio giorno principale, alla luce di tutto ciò.

Torno al Black Heart e inizio direttamente col Desertfest burger come forma di colazione, proprio lui, il burger vegano del Black Heart, edizione Desertfest, con super descrizione di maionese e spezie piccanti. Vediamo che effetto mi fa, a giudicare dal menu dovrebbe permettermi di viaggiare nel deserto del Nevada senza nemmeno dover tornare alla metropolitana. Non male effettivamente, e giustamente un po’ bruciacchiato, mi piace pensare dal Sole… in cucina. Proprio mentre aspetto che la mia tarda colazione sia pronta, mi chiedo se il termine metallaro sia ormai desueto. Come proprio il mio consigliere Micky Car direbbe, affermando che metallaro sia una parola da boomer. Non per niente, non la vedo mica scritta facilmente la parola “metal” sul programma.

CamdenDesertfest
Camden Town

Mentre continuo ad aspettare che il burger si abbrustolisca alla luce del Nevada, eccoli che li riconosco dalla faccia, dallo sguardo, sono lì a ordinare un burger come me, al Black Heart, uno dei luoghi più metal di tutta la Gran Bretagna. Il metallaro brutto sporco e cattivo che strappa i pezzi di carne ovviamente al sangue usando le sue demoniache fauci… beh, insomma, roba del passato. Perché alla fine puoi essere vegano e metallaro, per capirci. Edoardo e Tommaso, basso e batteria dei Lord Elephant, erano lì ad aspettare anche loro, ripeto… la faccia tra compatrioti si riconosce, ma non funziona il riconoscimento della mano, che questa volta nel loro caso non gesticola come dovrebbe. Due chiacchiere e ci si rivede dopo tra la composta e tatuata folla del Desertfest, sulle panche fuori al Black Heart.

I Lord Elephant (Leandro Gaccione, Tommaso Urzino ed Edoardo De Nardi) suonano di lì a poco e prima del loro sound-check li sequestro per scambiarci due impressioni sul festival. In realtà ne parte una valanga di pensieri che spaziano tra Londra ed Empoli, tra Regno Unito e Italia, tra furgoni, birre offerte, birre non offerte e analisi del genere. Leandro – da cui curiosamente nasce il nome della band – ci tiene a raccontarmi una sua disavventura accaduta la sera prima in un noto locale blues di Londra, finendo poi a disquisire se la propria chitarra sia un qualcosa di incedibile, proprio come non si condividerebbe mai la propria donna o il proprio uomo. Insomma, siccome erano più le risate e ci stavamo facendo trasportare dall’entusiasmo dell’incontro, li ho riportati sui binari della conversazione chiedendo loro se condividevano la miriade di classificazioni attorno allo stoner, e cosa fosse lo stesso. Forse era meglio la briglia sciolta, perché si è giunti a dire che stoner, in fin dei conti, non significa nulla. Prima di salutarli chiedo loro a cosa devo stare attento durante il loro show di lì a poco, che quindi non mi sarei assolutamente perso, e mi sento dire di semplicemente notare la loro bellezza. Ora, non saprei parlare di bellezza in un luogo come il Black Heart, con gli Orange che ti scompigliano pure le sopracciglia, ma l’energia, la carica e la goliardia dei Lord Elephant dal vivo è stata davvero una bella sorpresa: Leandro è una belva da palcoscenico, con tanto di occhiali cool che definirei meravigliosamente “fuori onda” rispetto al genere, eppure così efficaci, mentre Edoardo si lancia nelle più classiche pose metal capelli al vento immaginato, sguardo fiero e basso elettrico tutto stile e fiamme. Spettacolari insomma. A Johnny Fiasco sarebbero piaciuti da morire, infatti gli mando al volo un messaggio-segnalazione su Whatsapp.

Monkey3Band
Monkey3

Sempre nella stessa soleggiata seconda giornata, nel tardo pomeriggio incontro Boris De Piante, fondatore e chitarrista degli svizzeri Monkey3 (segnati tra i miei sorvegliati speciali per il festival, sempre grazie a Johnny Fiasco), una di quelle band che hanno saputo davvero spaziare – come ho potuto evincere dal loro purtroppo breve live all’Underworld, in prima serata. Psichedelia mescolata a tutto quello che si può tirare fuori quando chiaramente ogni nota appare studiata a tavolino, cesellato tra una chitarra solista pilota e tappeti di tastiere sorretti da solide colonne di basso e batteria. Boris, durante la nostra breve chiacchierata, mi confessa l’evidenza di quanto il loro tour, buon esempio dell’entusiasmo e la voglia di fare musica sempre e comunque, sia un essere sempre in movimento, sempre “on the road”, loro quattro della band e i tecnici che li accompagnano preziosamente per tutto il resto. Oggi a Londra, appena arrivati da Brussels e poi alla volta dell’Olanda il giorno dopo. Gli chiedo onestamente se vuole un caffè, lui sorride ma forse l’avrebbe voluto davvero, nella purtroppo angusta e anonima tenda rinominata sala stampa. La nostra rapida eppur densa chiacchierata (tra fantascienza e organizzazione di un tour) lo desta, non crolla dal sonno. Come anche i Lord Elephant, Boris non ci tiene a qualsiasi forma di catalogazione della propria musica, con buona pace delle descrizioni sul programma del Desertfest e di quello che potrebbe dire un qualsiasi motore di ricerca pompato a intelligenza artificiale. Il loro set ricorda davvero i Pink Floyd come non ricordo dove aver letto prima. Qualcosa che magari avrebbe avuto senso a Pompei, magari una Pompei on steroids, ecco. Boris alla chitarra è una creatura ispirata dalla sua musica – come auto-alimentata, dove il basso di Jalil guida l’elegante carrozzone, detta il tempo a cui il pubblico può oscillare il capo, in buone mani.

Dopo aver fatto un salto cognitivo alla Roundhouse, dove ho intravisto e intrascoltato gli Acid King, che – credo per il caldo, ma poi ho capito per problemi tecnici – a un certo punto dello show hanno deciso di aprire le porte e, mentre mi bevevo il caffè numero dodici o tredici, ho iniziato a sentire vibrazioni chiaramente oltre modo penetranti, dalle mura e nelle ossa. Ormai soggetto al concentrato di fuzz, deserto e volume girato a un milione, sono salito nella splendida sala da concerto della Roundhouse dove in passato vi ho visto indimenticabili concerti come quelli dei Neutral Milk Hotel e Pixies e in serata i Suicidal Tendencies faranno la loro attesa apparizione – attesa soprattutto da chi ha pagato una cifra sostanziosa per questi tre giorni di festival, cifra in ogni caso inferiore a un posto qualsiasi per un concerto di David Gilmour. In ogni caso la Roundhouse profuma di storia della musica, della migliore, è così evidente che molto sia passato di qui, che fossero i Doors, i Pink Floyd o i Fleetwood Mac. Non si può evitare nemmeno di attaccare bottone con chiunque, e c’è chi vuole che tutto rimanga di nicchia, chi vorrebbe i biglietti diversificati a seconda della venue, chi come me fa finta di perdere tempo per prendersi l’ennesimo caffè, per continuare a osservare la fauna e l’ambiente. La musica in filodiffusione al Roundhouse, nella peggiore delle ipotesi, sono gli Stooges.

In ogni caso, con ancora parecchie ore davanti a me e mosso da innocente curiosità, vado a sbirciare l’aria che tira al Devonshire Arms – conosciuto da tutto come “The Dev” – dove arrivo nel pieno dell’esibizione degli Under The Ashes. Il “problema” (ma magari la si potrebbe considerare una voluta peculiarità) è che la band suona nello stesso spazio del pub stesso, peraltro nemmeno di dimensioni eccezionali. Questo sarebbe abbastanza normale per un act qualsiasi di pop-rock ma quando si tratta, come in questo caso, degli Under the Ashes ecco che varcare la soglia del locale significa essere travolti da una massa fiammeggiante di note, sputati a pieni polmoni dai soliti amplificatori Orange. Provate voi a ordinare una birra con quel casino… Nonostante l’orario atipico (sono appena le sette di sera), il locale è pieno e tutti pare siano riusciti comunque a ordinare da bere, resisto qualche minuto e poi m’incammino per una pausa defaticante al Black Heart (che ormai è chiaramente il quartier generale del Desertfest), prima di tornare alla Roundhouse. Siamo tutti in attesa dei Suicidal Tendencies (attesa comoda comunque, c’è parecchio spazio per tutti nella Roundhouse, che ha pure un bel foyer all’aperto, al piano di sopra) quando finalmente accade quello che avevo smicciato nel programma ma di cui – chiedendo in giro – nessuno sapeva nulla: l’anteprima del nuovo video di “Whisky in the Jar”, proprio quella, dei Thin Lizzy. Sì, lo so che il brano non è loro ma senza la loro versione non la si saprebbe a memoria. Il video, tutto un fumetto animato, viene proiettato in sala dietro il palco e coglie più di una persona di sorpresa ma la resa dell’idea e la fama del brano permettono un bel momento celebrativo che travalica le barriere di genere. Durante la canzone al mio fianco un tizio mi dice qualcosa con chiaro accento irlandese e io conseguentemente non ci capisco nulla, ma lo dice con un sorrisone e tale affabilità che gli sorrido e mi batto il pugno sul cuore, e lui alza il pollice. Avrà pensato fossi irlandese anche io o magari lui mi aveva solo detto che il video faceva schifo, chissà, una di quelle belle cose che non saprò mai.

SuicidalTendenciesBand2024
Suicidal Tendencies (ph: Mel Castro)

La sala si riempie ancora un po’ ed entrano in scena i Suicidal Tendencies, portando tutto un bagaglio di storia non da poco, fin dal 1980 in California e sciorinando diversi generi e cambi di rotta. Il loro live – detto in maniera onesta – è semplicemente una bomba: l’energia, il palco preso sotto assedio, incontenibili nelle gesta, con gli strumenti, con la attitudine. Il bassista Trujillo – figlio d’arte – è incontenibile (e parecchio in forma fisica!) mentre Mike Muir, lo storico vocalist, ne ha per tutti. Dall’essere non lontano dalla mischia decido di salire e guardarmi lo spettacolo dall’alto, dall’unico anello della Roundhouse e noto davvero cosa significa prendersi un palco e farlo proprio. Se i Suicidal Tendencies, nonostante qualche naso storto, siano il main act di questo Desertfest 2024 londinese ci deve essere un motivo e se pure non ci fosse, meritano chiaramente la prima serata del sabato, nella venue regina del festival.

Fatto abbastanza il pieno di tendenze suicide, proclami, e di decine di ragazzi e ragazze (beati loro) osservati farsi cullare e trasportare dalla folla, decido di lasciare la Roundhouse e tornare nel fulcro del Desertfest, ovvero tutt’attorno alla stazione di Camden Town. Mentre cammino per quei dieci minuti a piedi, ormai con la notte scesa e le orecchie piene di energia, mi viene in mente “Carmelita” cantata da GG Allin, con tutta quella assurda dolcezza, teatralità nelle intenzioni e calma post violenza, dopo il tornado o in attesa che la tromba d’aria travolga e faccia volare tutti. Penso a quanto tutto l’immenso calderone della musica ad alto volume (punk, stoner, metal, l’hard bop del jazz, etc.) sia quello, non posso non pensare sia quello, un teatro della vita, ripulito dalla realtà e reso innocuo e godibile.

Decido, una volta finita di fare il filosofo, di tornare al Black Heart per vedere gli spagnoli Wet Cactus che avevo cerchiato nel programma, ma niente da fare: una lunga coda per entrare nella sala da concerto del Black Heart e nessuna speranza, penso sia impossibile vedere nemmeno un minuto dell’esibizione. La mia seconda giornata al Desertfest finisce così, lascio una Camden Town a pieno regime, mi immergo nella rete sotterranea, e torno a casa.

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