Il Desertfest è il nome sotto il quale avvengono o sono avvenute disparate edizioni (qui a Londra e poi Berlino, Oslo, Atene, Anversa, New York), fin dal 2012, di una instancabile serie di concerti di artisti rientranti o orbitanti nelle categorie musicali dello stoner… metal. Io ci finisco dentro fino al collo per tutti e tre i giorni dell’edizione 2024 britannica, mosso da estrema curiosità sia per i generi musicali, sia per la miriade di gente con cui avrò l’opportunità di parlare, perché i festival, inutile dirlo, lo fanno anche le persone che ci vanno, per l’atmosfera in sé. A pochi giorni dal weekend del Desertfest, Johnny Fiasco e Micky Car, nomi in codice di due fidati amici parecchio preparati sui generi in cartellone – e relativamente noti nell’ambiente – mi consigliano chi ascoltare, il perché e l’albero genealogico delle band più importanti (il nome Goss, in tal senso scatena una raggiera di collegamenti, come anche Brant Bjork). Mentre Johnny Fiasco mi compila letteralmente un’agenda di appuntamenti a suo dire imprescindibili dimenticando che non posso essere allo stesso momento in due o anche tre posti diversi, Micky Car – a fronte dei miei timori da giornalista, benevole ma sedicente infiltrato – mi consiglia spassionatamente di indossare la mia maglietta di Zappa seduto sul gabinetto e conseguentemente non avere paura di nulla.

Il Desertfest londinese si svolge a Camden Town, in sei iconiche venue quali l’Underworld, il Black Heart, il Devonshire Arms, il Dingwalls, l’Electric Ballroom e la gloriosa Roundhouse. Camden è il luogo naturale per tutto questo, e mi chiedo – facendo mente locale – se sia sempre così o sia diversa in questi giorni. Sembra quasi che luoghi come il World’s End e il Black Heart abbiamo vinto il premio di maggioranza e che i loro adepti siano più visibili del solito. Conto le toppe in giro, ogni giubbotto jeans presenta tranquillamente una ventina di loghi di band più o meno famose. Anche solo cento giacche fanno facilmente duemila toppe, un campionario superiore forse pure a Discogs.

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Arrivo al Black Heart, a trenta secondi dalla stazione, mi accomodo su una panchina, prendo un gin & tonic, scambio due chiacchiere con tre del pubblico, e uno di loro mi spiega almeno una cinquina di band che è venuto a vedere e il perché… insomma mi ubriaca di informazioni, anche se io non riesco a dimenticare che in precedenza aveva detto ai suoi amici che prima di arrivare al Black Heart aveva seguito una lezione di yoga. Non giudicare mai un libro dalla copertina perché, appunto, il pubblico conta: come già detto un elemento importante nella riuscita di qualsiasi festival, e non solo per i biglietti venduti. Quello del Desertfest per esempio, nonostante l’aspetto minaccioso, lo vedo provato già a metà di venerdì, con tanto di coppie che dormono, lui sulla spalla di lei o viceversa. Devo necessariamente incolpare l’età (media) che avanza per tutti, inesorabilmente? Eppure alcune di quelle coppie mi sono sembrate abbastanza giovani. Magari la giornata fresca e soleggiata ha influito, come quando si dice che “il mare stanca”? Un’altra fetta di colpa se la prende la birra che, se tanto mi dà tanto, costa mediamente di meno del resto dei pub londinesi e ci sta una bellezza tra amplificatori e distorsori.

Mi sposto di appena un isolato, entro e trovo una scusa per poggiarmi a prendere qualche appunto, quando mi rendo conto che sarà forse un decennio che non entro nell’Underworld, che altro non è che lo spazio sotterraneo al celebre World’s End, uno dei pub più iconici di Camden Town e forse di tutta Londra. E l’Underworld non è cambiato, l’Underworld non cambia: rimane il luogo dove il diavolo si prende una pausa dal lavoro, magari a metà mattina. Visto che vi ero di passaggio e sfruttando la micronazione Desertfest, vi ci vedo i Wake e, col senno di poi, forse sono gli unici non indimenticabili.

Ritorno al Black Heart, per beccare gli Orsak:Oslo. Dall’espressione dei loro volti, non avevo molti dubbi. L’accoglienza a chi si presenta dinanzi il loro palco è imponente, non nei volumi ma, oserei dire, nella gittata del loro suono. Psichedelici nella composizione, nei tempi, e distorti nell’esecuzione delle loro chiare intenzioni. Nota a margine, a proposito della gittata del loro suono, la grancassa mi ha letteralmente riorganizzato la disposizione degli organi interni. Noto una cosa con piacere, non importa il volume ma in qualsiasi pub del pianeta Terra, la barista capirà sempre quando dici G&T. Il Black Heart al bar è pieno, sono le cinque del pomeriggio e la sala da concerto è anch’essa piena, il mondo rappresentato dagli spettatori del Desertfest esiste ed è così chiaro e affollato che mi fa piacere esserne coinvolto. Raggiungo la tenda della sala stampa, capisco che non si tratta di uno dei posti più inspirational del festival e torno tra i comuni mortali a bere birra fin da mezzogiorno. Qualche visiera alzata a quarantacinque gradi già si nota, cappelli filo californiani seguaci dei Suicidal Tendencies, a tutti gli effetti la band principale di questo Desertfest 2024. Ormai non resta che aspettare qualcosa che non sapevo, qualcosa di diverso, quindi “cambio canale” e vado a scovare i Colour Haze.

ColourHaze
Colour Haze

Il suono, l’eco, l’ego, sembra di essere presenti a un rito. L’Electric Ballroom è grande, spaziosa, una sorta di sorella minore della Roundhouse, per l’indomani. In questo tardissimo pomeriggio nessuno ha fretta, i Colour Haze accelerano bene, dosano, tengono in pugno la situazione, in modo tale da arrivare esattamente allo zero per cento di energie alla fine. Mi viene da pensare al grunge che abbraccia la psichedelia, mentre alle loro spalle continue proiezioni di luci e colori, frattali, ombre che amplificano l’effetto ipnotico del loro spettacolo. Anche la disposizione sul palco risulta efficace, creando una sorta di semicerchio verso il pubblico, con la batteria posizionata di lato a incrementare l’effetto scenico della performance. I colori e il suono non possono non farmi pensare alla sinergia, che quasi avverto anche io, come se fossimo nel 1967 a San Francisco. Avessero avuto quegli ampli all’epoca sono certo che Ken Kesey ne avrebbe installato uno sul letto del suo magic bus, e magari avrebbe fatto girare anche un album dei Colour Haze, tempi dispari e colori accecanti.

Arriva la sera, i Masters of Reality salgono sul palco senza alcuna intenzione di nascondere le loro veneranda età e autorevole esperienza nel settore di tutto quel che può essere considerato desert rock. In quartetto, capitanati ovviamente da Chris Goss, si presentano vestiti di tutto punto in tre completi monocromatici: Jaguar e completo grigio per Alain Johannes, Jazz Bass e completo rosso per Paul Powell, Chris Goss completo verde e Telecaster. Il loro blues è pieno, saturo, a volte forte a volte lento e ciclico. Mi viene un’analogia, è come se fossero gli ZZ Top con il volume a undici e uno screamin’ blues a dodici e una serie tendente a infinito di pedali octaver. Dopo tutte quelle lunghe attese sotto forma di canzoni a opera dei Colour Haze, ogni brano dei Masters of Reality suona come un inno, chiaro ed efficace. Anche loro buttano fuori il loro volume tramite due metri di amplificatori Orange (tra gli sponsor del festival). Una fila di pesanti camion che attraversano il deserto, ecco cosa il sound di questo concerto dei Masters of Reality mi porta a immaginare e una fila di camion non la fermi mica facilmente, che vada piano o forte, sollevando polvere e sabbia.

MantarBand
Mantar

Esco e vado all’Underworld per pisciare, trovo familiarità nei loro gabinetti, forse perché non rischi di scontrarti con qualcuno in uscita, questi non hanno angoli ciechi. Il bello di questo Desertfest è che hai sempre qualcosa in cui curiosare quindi mi fermo ad ascoltare e osservare i Mantar, ultimo act sul palco dell’Underworld per questo venerdì. Un duo tutto muscoli, gli amplificatori Orange che tengono botta nonostante abbiamo sudato sostanze acide per tutta la prima giornata. Erinç Sakarya alla batteria (parti ben precise e struttura portante dell’esibizione) e Hanno Klänhard alla chitarra dove con una nota, tra octaver in ogni direzione, ne escono almeno quattro, e non scherzo. Il pubblico gradisce e mi chiedo se siano appena arrivati, mentre ripenso a chi fino a un’ora fa dormiva il sonno dei giusti fuori al Black Heart.

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