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Sono le 21 di una fresca serata di fine giugno, non fa troppo caldo e incredibilmente non sta neanche piovendo. In una serata normale, fuori dall’Alcatraz si vedrebbero i soliti tour bus e le ultime persone che corrono per entrare e non perdersi neanche un minuto del proprio artista preferito, ma il evidentemente se l’artista in questione si chiama Corey Taylor non c’è niente di normale. Sono le 21, appunto, e la fila per entrare nel locale fa ancora praticamente il giro dell’isolato, tra gli sguardi incuriositi dei passanti ignari e la fretta di management, crew e artisti. Insomma, la serata non è iniziata nei migliori dei modi, quando è arrivata la notizia che i pullman con la strumentazione erano bloccati chissà dove, inconveniente che ha causato lunghe attese e grandi ritardi sulla tabella di marcia, ma evidentemente ci vuole ben altro per fermare un artista del genere.

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Insomma, sì, l’abbiamo rischiata grossa, ma forse anche per questo motivo è stato ancora più bello e liberatorio cantare, ridere e divertirsi insieme a uno dei frontman simbolo della nostra generazione. Corey Taylor si presenta in Europa dopo nemmeno un anno dalla pubblicazione del secondo album solista “CMF2” per offrirci uno show in cui può togliersi la maschera – fisicamente e metaforicamente – ed essere completamente se stesso sul palco, in tutte le sue sfaccettature.

La risposta per un artista di questo calibro era quasi scontata e difatti l’Alcatraz si riempie quasi completamente mentre sul palco si esibiscono i Siamese, quintetto danese che non si pone limiti e non ha certo paura di giocare con generi diversi, anche all’interno degli stessi pezzi. Così il pubblico può lasciarsi andare fin da subito tra riff e breakdown degni del più moderno post-hardcore, momenti R&B, parti con il violino e pezzi che non sfigurerebbero in manifestazioni come l’Eurovision.

Dopo l’ottima esibizione dei Siamese (che devono anche prestare la batteria alla band di Taylor), ci vuole oltre mezz’ora per il cambio palco, ma i fan sopportano bene l’ulteriore attesa. Sono ovviamente in grande maggioranza le magliette delle band madri, ma il pubblico è molto eterogeneo e si vedono, tra gli altri, anche un paio di bimbi – forse al loro primo concerto – con le mitiche tute e maschere degli Slipknot. Insomma, l’atmosfera che si respira, nonostante gli inconvenienti, è estremamente positiva e tutto questo entusiasmo può riversarsi sul palco quando finalmente, alle 22:20, la band fa il suo ingresso e attacca con “Post Traumatic Blues”. Sneakers, camicia dai motivi floreali e sorriso smagliante: Taylor si mostra fin da subito perfettamente a suo agio anche in questa veste e, dopo averci dato un assaggio degli Stone Sour con “Made Of Scars”, si diletta con un saluto in italiano – senza ovviamente risparmiarsi anche qualche classica imprecazione verso qualcuno di molto in alto.

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Lo show prosegue veloce e la scaletta è ugualmente divisa tra i due recenti album solisti del cantante e i grandi successi di Slipknot e Stone Sour, in un viaggio che attraversa quindi diverse ere e diversi generi, ma che rimane sempre coerente con il suo protagonista sul palco. Supportato da una band di tutto rispetto, Corey si mostra per l’animale da palcoscenico che è, corre tarantolato e si sgola sui pezzi più tirati come “Before I Forget”, si diletta a tratti con la chitarra, ci fa scendere più di qualche lacrime con le magnifiche “Snuff” e “Through Glass” e non smette mai di ringraziare il pubblico e di manifestare una profonda gratitudine per l’opportunità di essere ancora su quel palco dopo così tanti a anni, a fare festa ogni volta con migliaia di persone diverse.

Oltre quindi ad un resa ottima dei vari pezzi – a cui si aggiungono inserti divertenti come la sigla di Spongebob – quello che rende davvero lo show degno di essere vissuto è la spontaneità e l’assenza di artifici con cui Taylor si mostra sul palco. A questo proposito, la serata raggiunge il suo apice emotivo quando il cantante parla, con la voce rotta dall’emozione, dei problemi psicologici avuti di recente, prima di dedicare “Home” alla moglie Alicia, presente anche lei a lato del palco.

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Nonostante la mezzanotte sia molto vicina, c’è anche tempo per scendere dal palco e prendersi la canonica pausa prima dell’encore, nel quale, dopo la cover “The Killing Moon”, Corey e la band picchiano forte con la violentissima “30/30-150” e l’inno intergenerazionale “Duality”, su cui l’urlo della platea diventa assordante e in quel momento sembra assurdo pensare che c’è stato veramente il pericolo che saltasse tutto. L’abbiamo rischiata grossa, sì. Ma cos’è un concerto rock senza un po’ di azzardo?

Setlist

Post Traumatic Blues
Made of Scars
Black Eyes Blue
We Are the Rest
Song #3
Beyond
Before I Forget
SpongeBob SquarePants Theme
Snuff
From Can to Can’t
Talk Sick
Home
Midnight
Through Glass
The Killing Moon (Echo & the Bunnymen cover)
30/30-150
Duality

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