Un volo per Parigi.
Cinque giorni.
Tre concerti.
Una band.
E 347637483 emozioni.
Così sarebbe iniziato un video diretto dallo strampalato alter ego di Jared Leto, Bartholomew Cubbins, se questa avventura,- colorata, spossante, come solo la felicità più vera sa essere-, fosse stata niente più di un video musicale. E invece era lì. E lo potevo sentire nel vento gelido che mi colpiva le guance durante la sfiancante coda a Lille, nella transenna nello stomaco, nelle voci di milioni di ragazzi che cantavano in coro, a squarciagola, come se da quelle parole dipendesse la loro stessa vita. Lo sentivo, lo sapevo, eppure la sensazione di essere in uno dei loro video non mi ha mai lasciata. Forse perchè li ho visti talmente tante volte da riconoscermi in quelle immagini, girate a milioni di chilometri e di ricordi di distanza; o forse, semplicemente, perchè non mi sono mai sentita più a casa. Non ero più una straniera in una terra straniera. Non ero più il fantasma di me stessa. Ero, eravamo e siamo i figli di un grande impero: una distesa infinita di vite, di amore, fede, lussuria, sogni e la voglia di crederci, anche quando fa male.
Guardo il vinile di "Love Lust Faith + Dreams" girare sul piatto; gira veloce, una trottola, come se stesse scappando da qualcosa, dalla nostalgia forse. Silenzio. E poi parte "Birth", e non posso non sorridere pensando al vuoto nello stomaco che ho provato sentendola e risentendola dal vivo, a Lille come a Parigi, aggrappata alla transenna, quasi spingendola tra le costole, forte, per colmare quel vuoto, quel buco che ti divora mentre dormi e nemmeno lo sai, ti svegli e ti manca qualcosa. Mi sono lasciata divorare. Brandello dopo brandello, canzone dopo canzone, con la frenesia di risentire quel vuoto colmarsi. E ora lo sento qui, all’altezza del cuore, mentre il vinile continua a girare come i frammenti impazziti di ricordi che mi vorticano in testa, pregando che questo fiume di parole lo chiuda, sutura chirurgica di un tempo che è ormai solo un’ombra.
LILLE, 15 Febbraio
Una stazione ferroviaria. Un hotel che sembrava uscito dalla fantasia di Stanley Kubrick. Il bagno del Mc Donalds e lo Zenith. Questo è tutto quello che ho visto di Lille, tutto quello che so di una cittadina nel nord della Francia che per me resterà sempre l’inizio di tutto. Il principio di un viaggio su cui fantasticavo da anni; il primo di cinque giorni che mi sono sembrati come le montagne russe: su e giù, e poi ancora più veloce. Sento ancora il vento freddo tra i capelli, entrarmi dappertutto, sotto gli infiniti strati di vestiti, nelle ossa; sento ancora voci sconosciute parlarmi in una lingua sconosciuta ma chissà come, capire lo stesso. E sentirsi a casa, nonostante tutto. E questa sensazione me la porto dentro, mentre corro attraversando lo Zenith, io, che ad educazione fisica non riuscivo a resistere per due minuti, trasformata in una maratoneta ad ogni concerto, e la sento invadermi quando raggiungo la transenna: bum, forte nello stomaco, ma chi se ne frega dei lividi, chi se ne frega delle ore al freddo o della testa che scoppia. C’è solo il qui e adesso. E quando si abbassano le luci e i Twin Atlantic, rock band scozzese che accompagnerà i 30 seconds to mars per parte di questo tour europeo, iniziano a suonare, so che sono dove devo essere. Quaranta minuti di buon rock inglese e poi silenzio. Cala il telo nero sul palco, una triad bianca proiettatavi sopra; vedo Jared Leto nel backstage impugnare il microfono e la sua voce entrarmi nelle orecchie:
“I will save you from yourself,
Time will change everything about this hell
Are you lost? Can’t find yourself?
You’re north of heaven, maybe you’re somewhere west of hell”
Sapevo che non sarebbe stata un’altra Padova, con il caldo soffocante che ti schiacciava a terra, pesante come un macigno, e il desiderio bruciante, che minacciava di prendere fuoco, di sentire le nuove canzoni dal vivo per la prima volta; sapevo che non sarebbe stata un’altra Milano, così energica e per me così speciale, un raggio di sole che diradava la nebbia. Sapevo dell’amore di Jared Leto per la Francia e delle soprese che riservava sempre al popolo cresciuto all’ombra della Tour Eiffel. Sapevo ogni cosa, ma non è bastato a vincere la sorpresa e la gioia nel vederli così simili ma anche così diversi dai miei ricordi, come foto sfocate per il troppo movimento. Jared salta da una parte all’altra del piccolo palco di Lille, con una mazza bianca in mano e calzini colorati tirati su fino al ginocchio, ballando, cantando, sporgendosi tra la folla; avvicinandosi a Shannon che batte così forte sulla sua batteria, accanendosi su di lei come un animale sulla sua preda, in modo così feroce e istintivo che mi sorprendo a provare quasi dolore per lo strumento; correndo dalla parte di Tomo, che salta felice come un bambino imbracciando la sua chitarra. Loro saltano e lo faccio anche io, senza mai fermarmi, nemmeno durante la sessione acustica, con i piedi che rimbalzano sul duro cemento, senza provare dolore, con la promessa di riuscire a toccare il cielo. E mi sembra di toccarlo davvero, di raggiungerlo, quando sento i due accordi iniziali di “A Beautiful lie”, suonata full band per la prima volta dopo anni; la sento di nuovo dopo quel concerto milanese del 2011,passato e presente si incontrano e lo Zenith si infiamma, con una vampata rapida e pericolosa. Jared alza le mani al cielo, incrocia le dita a formare una triad, mi giro, guardo indietro: milioni di minuscole mani che mimano lo stesso gesto, con le luci che attraversano lo spazio vuoto tra un dito e l’altro, proiettando ovunque piccole ombre. E sorrido, pensando che questo è quello che vedono loro ogni sera e che lo sto vedendo anche io: un esercito di luci e cuori pulsanti. Chiudo gli occhi e trattengo quell’immagine nella mia testa, con Jared che urla: “Do you believe in me? ‘Cause I believe in you!”. E penso di non aver mai creduto davvero in qualcosa come in questo momento.
PARIGI, 17 Febbraio
Odio l’attesa prima dei concerti. Le ore di fila interminabili, che sembrano non passare mai, le lancette dell’orologio sempre ferme nella stessa posizione, lo stomaco che brontola ma tanto non riesci a mangiare. E invece la dodici ore di attesa fuori dallo Zenith di Parigi volano veloci, nonostante il freddo, nonostante la stanchezza di tre giorni passati senza dormire. Volano scandite da frasi in italiano, inglese e un francese stentato, in bilico tra la nostalgia e l’entusiasmo. Corrono via, galoppando veloci, come cani sciolti, e mi ritrovo di nuovo in transenna, con l’ansia che mi attanaglia lo stomaco, incapace di immaginare un concerto migliore di quello di Lille. E invece. C’era qualcosa di diverso, quella sera: forse la consapevolezza di trovarsi nella capitale francese, trasformata per una notte in un territorio neutrale, le tribune puntellate di bandiere francesi, italiane, spagnole, portoghesi, messicane, brasiliane, americane, inglesi, sventolate con foga, come per dire “io sono qui, sono qui per voi”. C’era qualcosa di diverso, di speciale, di irripetibile; lo sentivo. E fin dalle prime note di "Birth" questa, che era solo una piccola sensazione, sentita a fior di pelle, si trasforma in certezza e in una pelle d’oca costante. Li guardo muoversi su quel palco come ingranaggi impazziti durante “Search and Destory”, una carica di adrenalina che attraversa il corpo come se fosse elettricità liquida; vedo decine e decine di palloni colorati levarsi in aria al grido di “This is war” e la guerra non mi è mai sembrata più dolce. Jared si ferma, parla, alternando inglese e un po’ di francese: “This song is for all the people out there, the dreamers, the believers, the freaks, the differents, the open minded, the people that wanna take chances and the the people who believe in us” e in quel momento so che quella canzone è anche per me, che tutto il concerto lo è. Quel formicolio che senti nelle ossa quando una canzone, un momento, ti entra dentro, per davvero, fino alla più piccola cellula, diventa sempre più forte mentre Jared sventola la bandiera francese durante “Do or die”. Non era la bandiera del mio paese, ma era come se lo fosse; perché in quel momento non mi sentivo italiana circondata da francesi ,non mi sentivo niente, nessuna etichetta, nessuna costrizione; solo me stessa. Questo è quello che dovrebbe fare la musica, tutta la musica, e che i 30 seconds to mars fanno alla perfezione: unire le persone, ragazzi, adulti, maschi, femmine, francesi, italiani, russi, padri e figli. Come il bambino aggrappato alle spalle del padre che Jared chiama sul palco, troppo piccolo e intimidito anche solo per dire il suo nome. Come il ragazzo con il cartello “It’s my birthday”, a cui tutto lo Zenith intona un bel “tanti auguri a te” e a stento riesce a trattenere l’emozione mentre balla su quel palco enorme, troppo grande anche solo per i suoi sogni più fervidi. È in quel momento che mi accorgo di quello che sto vivendo: non è un concerto, è una riunione di famiglia. E molti non capiranno, ma va bene così, perché, quando la musica finisce e le luci si accendono quello che mi rimane dentro, incastrato lì, in qualche parte nel petto, non è solo il ricordo di un bel concerto, di una scaletta fantastica, di "Buddha For Mary" ed "Echelon" in acustica,- rarità eccezionali-, ma è come un fuoco, una sensazione di calore, lì, all’altezza del cuore. Un fuoco che brucia tutto: il freddo della notte parigina, la paura, le insicurezze, lasciandosi dietro una scia di luce che è come un ritorno a casa.
PARIGI , 18 Febbraio
Dicono che quando una giornata inizia male è matematico che finirà anche peggio. Io credo anche nel contrario: quando una giornata inizia bene, in un modo quasi accecante, se ci credi almeno un po’, finirà ancora meglio. Dopo aver incontrato per la seconda o terza volta in due giorni Stevie, il bassista per questo ultimo tour, che ormai ci ricorda come “le ragazze con la bandiera italiana in prima fila” e Shannon, in un modo così inaspettato e spontaneo , mi sentivo egoista anche solo a pensare a qualcosa che potesse migliorare quella giornata. Ma dimenticavo che ero a Parigi e che quando i 30 seconds to mars e la capitale francese si incontrano, - uh la la-, tutto può succedere. Quando le luci si abbassano sulla mia testa, feroci e vendicative come lame, per la terza volta in pochi giorni, davanti ai miei occhi non c’è il palco, a pochi centimetri di distanza, ma la visuale dalla tribuna dello Zenith. E da lì che urlo di stupore, sopra la testa di mille e mille persone, quando invece di "Birth" risuona "Escape" e i ricordi dell’era di This Is War mi riempiono la testa, facendola quasi girare. E lo farò ancora e ancora, con la sorpresa che rischia di strozzarmi la voce in gola, quando Jared annuncia "Vox Populi" e poi "Capricorn", "Attack", "Echelon", queste ultime cantate tutte in acustica. E non importa se a cantare siamo solo noi, se sento solo la mia voce coprire la sua e silenzio tutto attorno, se anche Jared ammette “ho fatto felici solo dieci persone ma va bene così”, perché fra quelle dieci persone che cantavano a squarciagola c’ero anche io. Mi arrampico sopra la sedia, in equilibrio precario, con in mano la bandiera italiana, scatenando insulti e mormorii in una lingua che non capisco. Da lì vedo tutto, ogni cosa: vedo Jared, Shannon e Tomo, tutti in bianco, regola della White Night, lanciarsi addosso polveri colorate, felici come bambini durante una battaglia a palle di neve, in una guerra che non fa male, ma solo bene al cuore. Nuvole colorate si sollevano ovunque, incontrandosi e fondendosi, creando colori sempre nuovi. Jared corre di qua e di là, ruota su sé stesso come una trottola, balla e io, da lassù, lo imito, conoscendo a memoria quasi tutti i suoi gesti, sua perfetta controfigura. Tomo si alterna tra riff di chitarra e accordi sulle tastiere, saltellando in giro come una molla impazzita. Shannon si abbatte con furia vendicativa sulla sua batteria, con la schiena lucida di sudore, che quasi brilla colpita dalle luci. E da tutto lo Zenith si alzano cartelli con scritto: MERCI, grazie e lo ripeto anche io nella mia testa: merci, merci, merci. E sono certa che lo ha pensato anche il ragazzo che, chiamato sul palco con la sua fidanzata durante Up In the air, si è inginocchiato proprio lì, al centro, con in mano una piccola scatolina, quasi tremando di emozione mentre le chiedeva “Will you marry me?”. Ecco cosa hanno fatto i 30 Seconds To Mars ancora per una notte: hanno unito le persone. E non mi sono mai sentita meno sola.
Esco dallo Zenith ancora frastornata, so che dovrei sentire freddo, che l’aria gelida di Parigi dovrebbe farmi venire la pelle d‘oca su tutto il corpo, ma non sento nulla che non sia la musica che ancora mi risuona nelle orecchie. Mi siedo sul cemento ruvido e sorrido. Sorrido, con ogni parte del corpo che pulsa di dolore, pensando per la prima volta davvero a cosa ho fatto, solo per sentire quel calore, quella luce che si irradia dal centro del petto, in mezzo alle costole, che cercano di imprigionarla ma non ce la fanno. E il sorriso si allarga sempre di più, tirandomi il viso screpolato dal vento, perché so che non sarà l’ultima volta che attraverserò il mondo solo per sentirmi a casa, su un pianeta così lontano ma così vicino.
Guardo il vinile di "Love Lust Faith + Dreams" girare sul piatto; gira veloce, è una trottola impazzita, come se cercasse qualcosa: Il confine del prossimo sogno , un merletto di promesse, aspettative, lanci nel vuoto senza mai la paura di cadere. Chiudo gli occhi, lascio che continui a girare anche quando la musica finisce. Perché so che in realtà non finirà mai.
“You and I will never die, it’s a dark embrace, in the beginning was the light of a dawning age, It’s time to be alive. “