A cosa serve la critica musicale?
La principale difficoltà della critica musicale "pop" è quella di essere chiamata a giudicare un eterogeneo fenomeno commerciale, senza avere una precisa filosofia alla base. Cedere spesso a giustificare qualsiasi cosa, alla lunga, rende poco credibili.


Articolo a cura di Alberto Battaglia - Pubblicata in data: 20/09/13

Forse qualcuno di voi dà ancora credito al parere degli esperti del rock, che scrivono su blog e riviste. Qualcuno dovrà pur esserci, ma sono certo che questa fiducia è in costante discesa. Infatti una serie di aspetti che vedremo rende la critica musicale “pop” assai difficile da prendere seriamente. Ma allora “a cosa serve la critica musicale?”; per capirlo va prima chiarito un altro aspetto: ovvero cos'è la critica, in generale.


La critica è tale, e per questo si differenzia dal semplice “gusto”, perché motiva i propri giudizi attraverso una filosofia estetica precisa e costante. Essa è una sorta di scala di valori formali e sostanziali che serve da filtro per le opere d'arte. Per questo criticare significa scegliere: ossia eleggere le opere che soddisfano un certo tipo di requisiti e sminuire quelle che ne sono prive. Ovviamente questo schema di valori non è immutabile: infatti lungo i secoli, al sopraggiungere di un cambio della filosofia estetica derivava una valutazione diversa dei medesimi artisti, spesso già valutati dall'epoca precedente. Un esempio eclatante è dato dall'alterna fortuna critica di Michelangelo: l'artista principe del Vasari, in epoca manierista, diventa poi, con l'avvento del neoclassicismo del '700, un semplice maniaco dell'anatomia muscolare. La storia dell'arte è piena di esempi del genere, esaltazioni, cadute e risalite delle “quotazioni” degli artisti. Per secoli la critica d'arte si faceva interprete di una cultura, di un'epoca ed era un modello per ogni seguace (od oppositore) di una determinata corrente estetica.

 

Ma torniamo al rock.

 

Senza che sia io a suggerirvelo sorgerà immediatamente un' obiezione: “non si può giudicare con gli stessi metri due dischi molto diversi!”. Per esempio un disco punk e un disco progressive. Eppure essere critici vorrebbe dire proprio questo! L'idea che i metri di giudizio debbano adattarsi al genere da giudicare sembra una posizione quasi scontata per noi, tuttavia sottende un assunto fondamentale: tutti i generi musicali, e quindi ogni filosofia estetica ad essi sottostante, ha pari dignità. E questa pari dignità fra generi è un concetto del tutto estraneo alla critica dell'arte classica (pensate alle aspre diatribe condotte da Leonardo per decidere quale forma d'arte è “più nobile” fra pittura, poesia e via dicendo). Cosa rende, dunque, la musica leggera diversa dall'arte tradizionale? E' la sua natura popolare, certo, ma soprattutto quella commerciale. A differenza delle forme artistiche classiche la musica leggera non nasce per rincorrere un modello artistico definito, bensì per vendere copie (almeno dal punto di vista di chi la diffonde). E siccome per vendere il più possibile nessuna fetta di mercato va trascurata, ecco il fiorire e il proliferare di culture mainstream e controculture indie di ogni genere; ciascuna viene sottoposta ai vari giornali ed esperti di turno la cui attività via via si compenetra sempre più con la mera promozione commerciale. Ed è così che la critica musicale spesso e volentieri non ha alcuna coordinata definita, dovendo partire con neutralità nell'approcciarsi a qualsiasi genere. Quindi mai si assisterà a una bocciatura di Burzum per ragioni morali, o mai a una bocciatura dei Green Day motivata dalla pochezza tecnica: per ciascun genere è riservato il proprio “vestito critico”, in un crescente svilimento dell'identità che motiva i propri giudizi.

 

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Questo modo “politicamente corretto” di giudicare i dischi come può diventare un punto di riferimento riconoscibile? A questo punto è innegabile: l'unico modo per dare un senso all'attività di valutazione è possedere e rendere manifesti i propri parametri di giudizio costanti, altrimenti criticare sarebbe quasi come emettere un parere qualsiasi.


Quale potrebbe essere la prospettiva giusta e onesta per giudicare opere di natura commerciale come la musica pop? In verità i critici più accorti e bravi non hanno evitato di porsi questa domanda. Forse per un retaggio novecentesco uno dei parametri più diffusi è quello di valutare il tasso creativo e l'originalità della musica, esaltando quindi le avanguardie e penalizzando le nostalgie del passato, in una visione progressista della musica. Ma ormai questa impostazione non convince larga parte del pubblico. Altri valutano su un piano più emotivo, nel quale molto peso è dato ai testi e all'autenticità che lega l'artista a quel che suona. Non mancano poi quelli che ritengono “artistiche” anche le conseguenze sociali o politiche che può avere un determinato disco (pensate a Dylan o ai Sex Pistols).

 

Ciascuno, secondo la propria attitudine, tende a identificarsi in qualcuna di queste categorie, oppure in altre ancora. Il problema fondamentale però resta irrisolto: come valutare musiche dagli obiettivi diversi, indirizzate a pubblici diversi, mantenendo lo stesso approccio critico? E se non si può mantenere un approccio critico unitario, come qualificarsi verso i propri lettori?

 

Lascio a voi l'ultima parola.




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