Sonisphere: The Big Four? No, The Big Fail
Ovvero: come un viaggio alla mecca possa trasformarsi in una missione di guerra, vittoriosa, ma ricca di caduti.


Articolo a cura di Marco Ferrari - Pubblicata in data: 25/06/10

Cari lettori, non sapete per quanti mesi abbiamo sognato di potervi raccontare quello che aveva tutti i presupposti per diventare uno dei più importanti eventi musicali di sempre. Per chi, come me, è cresciuto consumando lp di fottutissimo thrash metal, la data svizzera del carrozzone Sonisphere rappresentava un sogno che, ahimè, si è velocemente trasformato nel peggiore degli incubi.

SpazioRock era presente in massa all’evento, per potervi regalare mille voci diverse, accumunate da un’unica passione, ed è per questo che, nonostante tutto, prima di dare il giusto spazio alle considerazioni sulla totale inettitudine degli organizzatori, vogliamo lasciare spazio al racconto di viaggio ed alle considerazioni prettamente musicali del nostro Marco Somma.


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Live Report a cura di Marco Somma


Sono le prime luci di un venerdì mattina che si preannuncia memorabile. La sveglia biologica lascia il posto a quella del metallaro interiore, che con mezz’ora di anticipo ti costringe a riaprire gli occhi e metterti in moto. L’ansia di raggiungere il luogo delle celebrazioni è grande almeno quanto i nomi che campeggiano sul biglietto.
Ci mettiamo in viaggio sotto una pioggerellina incessante. Il meteo prevede piogge intense fino a tarda sera, ma poco male: un cambio di vestiti in macchina e una giacca antipioggia basteranno ad affrontare la giornata campale … Questo però solo nei nostri sogni più ingenui.
Quattro ore di viaggio, interrotte solo per un caffè pessimo, ma in grado di ridare la sveglia che nel frattempo inizia ad avere le batterie scariche. La strada, nonostante i continui lavori in corso, è scorrevole. Il panorama è uno spettacolo per gli occhi e il percorso segnato sulla mappa (niente navigatore: si va alla vecchia maniera) fa benissimo il suo lavoro. Tutto fila liscio che è una bellezza ed arriviamo in perfetto orario sul posto.
Chi a piedi dall’area campeggio, chi in macchina, i metalheads formano una fila disordinata e chiassosa al punto giusto. Dopo un breve giro tra le aree parcheggio, ci convinciamo che il terreno potrebbe trasformarsi in poche ore in una trappola senza via di fuga. La fortuna è comunque dalla nostra parte e troviamo quasi subito una pratica area di sosta improvvisata lungo la strada principale.

Fin qui ancora tutto bene, un pessimista cronico avrebbe detto anche fin troppo e avrebbe cominciato a preoccuparsi, peccato che se ce n’è uno tra noi  evidentemente ha deciso di pensare in silenzio le sue cupe elucubrazioni. Dieci minuti più tardi siamo di fronte all’ingresso dell’area concerti. La scena ha un che di apocalittico. Una moltitudine di gente, il cui aspetto non è già tra i più rassicuranti nella vita quotidiana, arranca ora con le gambe immerse nel fango fino alle caviglie. La pioggia batte ininterrotta sulle loro teste e ha l’aria di farlo ormai da diverse ore. Qualche trattore ci passa a fianco trainando berline ed utilitarie con la melma ai finestrini…


Un respiro profondo e ci tuffiamo anche noi nelle distesa da incubo.
Circa un’ora e un chilometro scarso più tardi siamo finalmente dentro. Dal palco principale le note di “Antisocial” ci annunciano che gli Anthrax hanno già cominciato. Mentre avanziamo verso le transenne, ci auguriamo che l’intermittenza dei suoni sia dovuta solo alla distanza, ma è giunto il momento di unirci alla festa e mettere per un po’ da parte i cattivi pensieri.
La performance degli Anthrax purtroppo non è delle migliori. La scaletta come di rito predilige i tempi andati, ma la voce di Belladonna ormai ha perso gran parte di quella nota argentea di un tempo. I pezzi estratti si rivelano cosi un’arma a doppio taglio, sempre presenti nei cuori dei fan ma inarrivabili per lo storico vocalist. I suoni non aiutano gli strumenti a compensare. Singhiozzanti, disordinati nella distribuzione dei volumi rendono il concerto un amalgama quasi incomprensibile. Fortunatamente, non tanto da mettere in discussione il tributo alla memoria di Ronnie con le note di “Heaven&Hell”.
Augurandoci che l’andamento della giornata non sia fedele alla partenza, ci consoliamo pensando che il festival ha ancora molto da offrire.
Verso le due del pomeriggio, la pioggia finalmente lascia lentamente il passo ad un cielo coperto, ma privo di precipitazioni. Con i piedi ormai irrimediabilmente immersi nel pantano, l’attenzione al meteo diviene fondamentale. Facile pensare che, se avesse davvero continuato fino a sera come da previsioni, prima di mezzanotte saremmo tutti tornati a far parte dell’argilla dalla quale siamo venuti.

I concerti si susseguono ininterrotti. Sui due palchi affiancati le band si alternano con una rapidità impressionante. La cura dei suoni e l’alternarsi delle formazioni è forse l’unico punto che lascia vera possibilità di discussione nel corso della giornata. Non avere il tempo di rilassarsi e fare due chiacchiere in santa pace tra un concerto e l’altro piace ad alcuni, ma pesa ad altri. I suoni per canto loro sono duri all’estremo e rimangono pressoché sempre invariati. Le sessioni ritmiche strabordano su quelle armoniche e le voci faticano un po’ ad emergere. Il risultato è molto d’impatto, forse di gusto un filo troppo “nu metal”, considerate le band.
Bullet For My Valentine ed Alice In Chains sono come cavoli a merenda nella bill della manifestazione. Non trovano il loro pubblico ad accoglierli, né un pubblico in grado di apprezzarli come forse meriterebbero. Entrambi si dimostrano tecnicamente all’altezza, ma privi di presa e convinzione. Fanno certamente meglio gli Stone Sour che, forse più adatti al contesto, riescono ad entusiasmare una buona fetta dei presenti. Taylor si conferma un frontman capace, anche se gli effetti sulla voce a tratti lo tradiscono. In poco meno di un’ora di concerto presentano un paio di nuovi pezzi e martellano con una promozione al disco di prossima uscita da fare invidia a Vanna Marchi. Alle 16.30 è la volta degli Slayer. Sono sempre loro, iper-aggressivi e sorridenti come non mai. Unica sorpresa una scaletta decisamente atipica, che non fa mancare i grandi classici, ma propone anche estratti tra i lavori più recenti e certamente meno popolari. Con loro non ci sono mai vere sorprese, ma d’altro canto è anche per questo che la gente li ama.

È arrivato il momento per i Megadeth di fare il loro ingresso trionfale e arriva anche il solo ed unico ritardo della giornata. Non c’è comunque di che stupirsi. Quella vecchia volpe di Mustaine non avrebbe mai accettato di suonare con un soundcheck precotto o frettoloso.
Noi ne approfittiamo per provare a riempire gli stomaci, ma una nuova brutta sorpresa ci attende al varco. Gli stand del cibo sono oberati di gente, i prezzi sono da strozzinaggio e l’attesa per una pizzetta fetida e una minerale travestita da birra si aggira intorno alla mezz’ora. Proviamo dunque ai “ricchi” stand di cucina etnica che ti vendono si il cibo… ma per dissetarti devi tornare comunque ai tendoni di cui sopra; “noi non vendiamo bevande, non ci hanno dato i permessi”.
Scorati, nervosi ed affamati torniamo verso i palchi. L’attesa se non altro è ripagata. La performance dei Megadeth è devastante come da previsione. Un paio di errori nell’esecuzione sorprendono tutti e per primo il frontman, che prende però la cosa sul ridere e crea un bel feeling col pubblico. La comparsa di Scott Ian a fianco di Mustaine sulle note finali di “Peace Sells” è la ciliegina sulla torta.

Lemmy è sempre Lemmy e quando prende il suo posto sul palco dimostra di saperlo bene. I Motorhead non sono certo mostri di originalità. Fanno rock duro, lo dicono con orgoglio e con lo stesso piglio catturano il loro pubblico. Strana scaletta anche per loro che, oltre ai classici, mettono in fila un sacco di materiale tra il più recente. La versione di “Over Kill” che chiude per loro il concerto è probabilmente tra le più lunghe a memoria d’uomo!
In una manciata di minuti i Rise Against compaiono sul secondo palco. Per loro c’è una buona fetta di pubblico pronto a ballare e saltare. La loro performance dura circa 45 minuti, ma sembra allungarsi per ore. Dopo aver incensato i Motorhead, padri fondatori di un rock sempre uguale a se stesso, sembra difficile poter accusare di ripetitività qualcun altro, ma c’è un limite a tutto. 45 minuti fatti di un’unica linea ritmica che varia solo per le battute al minuto, riff rubacchiati qua e là e una voce alla Offspring che prova a fare il verso a John Bush. Spaventoso.

Dieci minuti per riprenderci e le immagini di un classico di Sergio Leone fanno capolino sui megaschermi. Le note di Ennio Morricone si spandono sulla piana di fango e gli occhi dei presenti si puntano sul palco principale. “Creeping Death” esplode letteralmente su un pubblico in visibilio. Sugli schermi il faccione di Hetfield prende il posto di quello di Clint Eastwood ed ogni preoccupazione scompare in una vampa d’esaltazione. Vedere che effetto riescono a fare i Metallica fa sempre una certa impressione, ma a questo giro c’è qualcosa in più. I four horsemen sembrano ancora più esaltati di quanto già non sembrassero negli ultimi tempi. Suonano come non facevano da tantissimi anni. Potenti in modo devastante, veloci (magari un po’ imprecisi), ma totalmente travolgenti. Per essere certi che l’impressione non sia solo soggettiva, ci guardiamo intorno per valutare le espressioni della gente e sembra che non uno sia stato risparmiato. Un misto di incredulità ed eccitazione nervosa si mescola durante i primi grandi classici. Quando il front si ferma prima di passare ai lavori estratti dal recente “Death Magnetic”, l’atmosfera sa davvero di festa senza quartiere.
Prima di continuare sulla strada dei nuovi brani, Hetfield si prende il tempo di scherzare col pubblico, chiede se la gente si sta annoiando e non convinto lo chiede di nuovo con tono un po’ più complice: “Vi state annoiando con la roba nuova? Sicuri? Neanche un po’?”.
Rassicurati i ‘tallica riprendono da dove avevano lasciato, un paio di estratti dall’ultimo lp e poi si passa di nuovo ai solchi storici. “Fade To Black”, “One”, fuochi d’artificio, riflessioni profonde e umorismo da osteria completano l’opera.
Due ore memorabili, ma la missione ora è giunta al termine ed è arrivato il momento di fare il conto dei danni.

Per rendere fedelmente la situazione servirebbe un navigato cronista di guerra. La gente arranca verso l’uscita, molti sono ormai scalzi, privati delle scarpe rimaste intrappolate nel fango. Più di una ragazza è costretta a farsi portare in braccio da un amico. Ma il peggio viene nell’area campeggio e nei parcheggi.
Nonostante la pioggia si fosse fermata, la melma in certi punti raggiunge ormai quasi mezzo metro di profondità. Qualcuno stremato scivola e deve essere raccolto o per meglio dire strappato alla gora, ormai incapace di risollevarsi con le sue sole forze. Una ragazza piange, riversa su una delle tende, tenendosi stretta una gamba. I trattori dei contadini della zona iniziano il via vai per estrarre le auto impantanate alla modica cifra di trenta franchi a macchina…
Affamati, infreddoliti e con un paio di scarpe in tre, raggiungiamo l’auto decisi a metterci abiti asciutti (salvo per le scarpe che sono state lavate sul posto) e muoverci rapidamente verso un’area di servizio sull’autostrada, del cibo e del caffé bollente.
Peccato che in Svizzera le aree di servizio chiudano dalle ventitre alle sei del mattino …

L’efficienza svizzera? Sepolta in un mare di fango e non c’è trattore che tenga!


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Il giudizio esposto in chiusura di report mi pare una chiara bocciatura senza appello, ma mi preme spendere ulteriori parole per far capire a tutti voi le condizioni estreme a cui gli affezionati fan sono stati costretti. Per chi, come me, è arrivato la sera precedente per godersi anche il warm up a base di Overkill e Airbourne, la drammaticità della situazione è apparsa immediatamente evidente e vorrei affrontarla per singoli punti:


Parcheggio: incredibile come si sia pensato di organizzare un festival di tale portata senza la minima dotazione di infrastrutture e su di un terreno argilloso. Le uniche persone felici di questo fatto sono stati i “simpatici” contadini del luogo che, armati di trattore, hanno trainato macchine ininterrottamente, per la modica cifra di 30 franchi.

Ingresso: già al venerdì la coda all’ingresso è durata un’ora abbondante con i piedi a mollo nel fango in attesa che gli zaini e le borse venissero aperti e controllati uno ad uno solo per entrare nel campeggio per poi lasciar ovviamente passare martelli, coltelli, picchetti e attrezzatura varia per allestire le tende. Vorrei quindi capire l’utilità di tale barriera … Probabilmente, volevano vedere se i nostri anfibi reggevano il peso del fango.

Campeggio: definire campeggio una distesa ricca di fango e di pantegane e sprovvista di qualsiasi infrastruttura di appoggio (ad esclusione di 10 bagni chimici per circa 15.000 persone) mi risulta alquanto ironico. Una disorganizzazione unica, nessuna zona segnata, nessun corridoio di passaggio lasciato libero per un’area che tra tiranti, fango e tende e presto diventata un gioco di equilibrio.

 

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Area Concerti: assolutamente inadeguata. Inammissibile per un paese evoluto una tale mancanza di organizzazione. Venti centimetri di fango la prima sera e quasi quaranta alla fine dei concerti, senza che sia stato fatto nulla per prevenire il disastro, quando bastava iniziare a spargere del truciolato per, se non altro, attenuare gli effetti collaterali di una location non adatta.

Suoni: chi li ha sentiti? Impensabile poter proporre dei concerti con degli impianti costantemente singhiozzanti e volumi tali per cui se parlavi con il vicino, di fatto, non sentivi la musica.

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Stand alimentari: qui i problemi sono innumerevoli, ma aldilà dei prezzi esorbitanti (4 franchi per un bicchiere d’acqua sono da strozzinaggio) le vere pecche sono relative agli spazi ed all’igiene. I grossi stand predisposti erano, difatti, già al limite della capienza la sera del giovedì, quando erano presenti circa 15.000 persone e potete ben immaginare cosa sia successo il giorno seguente con 60.000 bocche da sfamare: code interminabili e parecchi stand che avevano esaurito le scorte alle ore 16. Fortunatamente, le vere attrazioni di tali aree si sono presto incarnate in simpatiche talpe che spuntavano dappertutto. Le piccole e buffe palle pelose sono state coccolate amorevolmente dai presenti, ma se le sommiamo alle pantegane da più persone avvistate, risulta evidente come non fossero garantite le minime condizioni igieniche per poter cucinare e somministrare alimenti. Va bene che la Svizzera sbandiera la sua indipendenza dal resto del mondo, ma una cosa del genere non sarebbe mai stata permessa in un Paese civile della Comunità Europea.

Personale: qui arriviamo al paradossale. Un festival a così ampia caratura europea e mondiale (abbiamo conosciuto ragazzi arrivati dal New Jersey ed addirittura dall’Australia) non può permettersi di non avere personale che mastichi un minimo di inglese. Questa considerazione ovviamente va intesa per quanto riguarda il personale degli stand, perché per quanto riguarda la security ed il pronto soccorso non risultano pervenuti, in quanto troppo impegnati a stare all’interno delle tende, mentre i ragazzi svenivano nel fango, oppure avevano i propri piedi completamente distrutti. Inutile entrare nel dettaglio, ma vedere persone barcollare, piangere e stringersi gli arti infreddoliti e doloranti è una scena da guerra del Vietnam, non da moderna civiltà.

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Scusate il mio lungo e libero sfogo, ma non potevo assolutamente tacere quanto è successo. Il più grande evento europeo si è trasformato, grazie alla totale incapacità degli organizzatori, nel peggior festival musicale di sempre ed è giusto che queste condizioni vengano denunciate a voce alta.


L’unico augurio che mi sento di fare allo staff svizzero del Sonicsphere è che almeno abbiano il buon gusto di vergognarsi.


Foto a cura di Laura Olmi e Fabio Franchini.




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