Altamont 1969-2009
Un crepuscolo per divinita' minori


Articolo a cura di Giovanni Capponcelli - Pubblicata in data: 15/12/09

Il 6 dicembre 1969 i Rolling Stones concludono un trionfale tour americano con un megaraduno gratuito in California. Quella giornata doveva essere una nuova Woodstock. Non lo fu. Meredith Hunter, ragazzo tra le migliaia che assisteva al concerto, fu ucciso dagli Hell’s Angels. Culmine di un avvenimento segnato da tensioni e violenza. Culmine di un anno vissuto pericolosamente tra scontri, manifestazioni e ideali deviati. Gli anni ’60 stavano veramente finendo.


The times they are a-changin'



altamont_image001I tempi erano veramente cambiati. Non nel modo giusto però.
Anche gli inossidabili Rolling Stones erano nell’occhio vorticoso del ciclone. E, come al solito, riuscivano a farla franca. Con il capolavoro "Let it Bleed" in distribuzione, nel Novembre 1969 attraversarono l’America con un tour destinato a diventare leggenda. Musicalmente innanzitutto: come testimonieranno "Get Yer Ya-Ya's Out!", il live ufficiale, nonchè decine di bootleg, la band è al massimo della potenza e della perfezione. Con il supporto di B.B. King o Tina Turner, “the World's Greatest Rock & Roll Band” ripercorreva gli ultimi successi discografici da "Aftermath" a "Beggars Banquet" con un sex appeal e un’aura, ora malefica ora lasciva, assolutamente inimitabili. Messa alle spalle rapidamente la dipartita di Brian Jones, da quell’anno faceva parte del complesso anche Mick Taylor, giovane allievo blues di John Mayall, chitarrista fluido e impeccabile; il suo volto imberbe da cherubino con vaporosi riccioli biondi, così come la sua risplendente Gibson, erano avulsi dalla tetraggine autodistruttiva del resto del gruppo come un agnello tra i lupi. La prossima vittima era pronta. Ciò nonostante il suo apporto musicale al gruppo fu splendido, rivestì vecchi classici di virtuosa professionalità e contribuì attivamente a capolavori come "Dead Flowers" o "Can't You Hear Me Knocking" (con un liquido assolo à la Santana), oltre che tante canzoni di Exile on Main street.
Per coronare quell’autunno di trionfi, il gruppo volle organizzare un ultimo concerto gratuito in California: un giorno di musica, un’ adunata di massa per un saluto finale all’America e per rimediare all’assenza di Woodstock. Dopo avere valutato alcune location a San Francisco, la scelta cadde sulla Altamont Speedway, un ovale da corse Nascar nell’ Alameda County, California del Nord. Erano attese circa 300.000 persone: sarebbe stata la “Woodstock del west” ad appena tre mesi dal trionfo del popolo di Bethel.
Gli Stones non erano avvezzi a raduni di quel tipo; a differenza degli Who non parteciparono a nessuno dei grandi eventi da Monterey in poi. Però il concerto ad Hyde Park del 5 luglio in memoria di Brian Jones non era evidentemente dispiaciuto al protagonismo di Jagger. Il gruppo poi era sempre pronto a buttarsi in qualsiasi impresa culturale, musicale o sociale, sia che la sentisse affine, sia che non gliene fregasse veramente nulla. Nessuna paura nel trascinare a fondo con loro fans, amanti perdute o musicisti stessi: Jagger sapeva che ne sarebbe comunque uscito “pulito” e più idolatrato di prima; Richards badava più che altro a non lasciarci le penne tra alcool e droga: sopravvivere era tutto ciò che chiedeva.


Rape, murder! It's just a shot away



altamont_image002L’evento di Altamont fu filmato con l’intento di farne un documentario dai fratelli Albert e David Maysles e da Charlotte Zwerin. Sulla falsariga della pellicole girate a Monterey e soprattutto a Woodstock, anche questa doveva essere una attenta testimonianza del Mondo Rock: avere i Rolling Stones come headliner aggiungeva un peso specifico notevole. Il fatto che Altamont, alla fine,  non risultò un concerto come tutti gli altri fu la fortuna dei registi, che si trovarono tra le mani un imprevisto reportage di cronaca nera. Il documentario che ne uscì, "Gimme Shelter", è un Rock-film straordinario e fondamentale; nonché un pezzo di giornalismo di inchiesta dalle potenti tinte noir. Comincia dalla fine e procede a ritroso. Gli Stones sono in sala montaggio a visionare le pellicole; per loro non una novità, visto che erano appena stati protagonisti assoluti del lungometraggio di Godard "Simpathy for the Devil", nonché di quell’improbabile carrozzone che fu "Rock and Roll Circus". Questa volta però le cose sono diverse; i volti appaiono tirati, gli sguardi stanchi. Charlie Watts fuma lentamente. L’atmosfera è quella di un processo informale; ricordare è doloroso.
Il riavvolgersi del nastri è il riavvolgersi della vicenda  stessa.
Gli Stones avevano scatenato una certa isteria nei fans già dall’inizio del tour; non erano rare invasioni del palco, subito rintuzzate dall’ entourage del gruppo. Niente di strano; però la tensione cresceva data dopo data. L’aggiunta di uno show finale gratuito fece tracimare definitivamente la diga dell’idolatria del fans medio in piena trans musicale. Altamont fu poi un parto travagliato, organizzato in poco tempo, passando da una possibile location all’altra, senza reale cognizione di causa. Il film si addentra nei meandri dell’organizzazione, alternando sequenze d’ufficio a spezzoni del gruppo sul palco: due mondi che vorremmo opposti, ma che in realtà sono legati a doppio filo.
In alcune sequenze in sala di mixaggio, dilatate e assonnate, il gruppo riascolta il master di "Wild Horses" e di qualche registrazione live che finirà su "Get Yer Ya-Ya's Out!" Sono minuti di ascolto profondo e compiaciuto. Richards tiene il tempo con lo stivaletto di serpente, canticchiando in silenzio, Charlie ha gli occhi bassi; anche Mick Taylor alla fine è soddisfatto. Jagger si concede un applauso. Ha ragione. E’ musica perfetta; è ascolto perfetto. Come dovrebbe sempre essere.
Poi c’è la folla, il pubblico; la solita marcia biblica verso la terra promessa “della Musica”, anzi in questo caso promessa “dalla Musica”; il solito rito del montaggio del palco, il tempio in cui officiare i riti; gli enormi amplificatori destinati a diffondere la Parola più lontano e più forte possibile. Poi gli Hell’s Angels.
L’idea di “ingaggiarli” come security pare fu suggerita da Jerry Garcia, placido chitarrista acido dei Grateful Dead. Gli “Hells Angels Motorcycle Club” sono, a tutt’oggi, un’associazione motociclistica formatasi alla fine degli anni ’40 in California ad opera di gruppi di reduci della Seconda Guerra Mondiale. Cowboy moderni e “outlaws” per eccellenza, le loro scorribande non erano estranee al nuovo fermento che il rock n’ roll iniettò nella sonnolenta società di metà anni ’50. In parte riuniti negli anni ’60 sotto la guida di Ralph "Sonny" Barger, si distinsero subito per posizioni piuttosto radicali in favore della Guerra in Vietnam e contro tutti i movimenti “hippies” della contro-cultura giovanile. A posteriori affidargli la gestione di un evento come Altamont suona un po’ come reclutare stewart per il derby di Milano tra ultras atalantini; è una scelta come un’altra, ma ce ne sarebbero probabilmente qualche centinaio di migliori. In cambio del lavoro di “security” gli Angels chiesero solo di essere pagati in birra (“we like beer”, come disse Sonny Barger... ). Si presentarono puntuali, con le moto tirate a lucido, i costumi in pelle, i gilet di ordinanza, capelli e baffi rigogliosi. Non erano agenti, non erano poliziotti, non erano vigili del fuoco e tantomeno paramedici; non erano addestrati per nessuno di questi servizi; erano motociclisti. Parevano usciti da un fumetto, come la domanda che suscitavano: chi controlla i controllori? Who watch the watchman?


The gangster looks so frightening with his Luger in his hand



altamont_image003Alla giornata di musica parteciparono anche Santana, Crosby & Compagnia, Jefferson Airplane e i Flying Burrito Brothers, nuovo gruppo folk-rock di fuoriusciti dai vecchi Byrds. Solite facce da megaraduno, ma quando alla sera deve cantare Jagger degli altri interessa poco o nulla.
In realtà la giornata fu interessante da subito, perché gli Angels avevano cominciato a menare le mani presto quel pomeriggio. Incuranti, inconsapevoli delle telecamere di Mysles e Zwerin attorno a loro, recitavano piattamente il clichè dell’estremista repubblicano che mette in riga, a suon di botte, hippies, freak e sfattoni, abbondante e chiassosa maggioranza  tra il pubblico. Delle scaramucce rimase vittima anche il povero Marty Balin, voce “sociale” dei Jefferson Airplane che a mala pena riuscirono a suonare; a poco valsero gli appelli alla calma di Grace Slick, e il cantante, cercando di difendere le ragioni del pubblico, che si vedeva sempre più mortificato (e bastonato) dagli Angeli, ottenne solo un occhio nero. Poi ci si mise anche Paul Kantner ad aizzare la polemica e le cose presero una piega ancor peggiore. Quel furbastro di Jerry Garcia, vista la malaparata, nemmeno salì sul palco. Jagger e soci, nel frattempo, erano murati in una roulotte blindata, circondati da security di ogni tipo. Sam Cutler, supremo tour manager del gruppo, andava e veniva, cercando di parlamentare con gli Angels per tastare il polso una sera che pareva sull’orlo di esplodere. Così, dopo una lunga e scorbutica giornata, l’attesa per gli Stones era divenuta snervante e spasmodica; la speranza era che lo show del mitico gruppo inglese potesse redimere un avvenimento nato sotto un cattivo segno.
Era già buio quando Jagger, in un completo a metà tra il giullare medioevale e il fumetto anni ’40, attaccò con "Jumpin’ Jack Flash". Nulla da fare: il set degli Stones fu travagliato sin dall’inizio. Il nervosismo era alle stelle e gli Angels avevano perso del tutto il controllo della situazione, additati ormai come ottusi picchiatori gratuiti. Mick e Keith dovettero smettere di suonare una prima volta durante Simpaty for the Devil, mentre proprio sotto il palco infuriava la rissa. Dopo alcuni minuti il gruppo ricomincia a darci dentro; almeno a provarci: "The Sun Is Shining" (canzone di Elmore James, molto amata da Brian Jones), "Stray Cat Blues" e "Love In Vain", coi suoi distesi giri blues, sembrarono placare un po’ gli animi. Ma la situazione degenerò del tutto prima e durante "Under my thumb".
Le telecamere di fratelli Maysles, da dietro lo stage, riprendono una scena che tracima tensione da ogni parte la si guardi.
Jagger si agita sul palco, richiamando alla calma il pubblico, Wyman, Watts e Taylor si guardano negli occhi con gli strumenti incerti in mano, Richards è frenetico e senza pace. Sam Cutler corre di qua e di la, parlando con tutti, cercando di mediare tra fans, Angels e Stones. Il pubblico è scosso da elettricità pura e questa volta la musica non c’entra nulla. D’un tratto la folla si apre e un Hell’s Angel si getta su un ragazzo di colore colpendolo tre, quattro, cinque volte con il suo coltello. Undici colpi in tutto; poi altri si accaniscono sul suo corpo stramazzato a terra.  Il suo nome era Meredith Hunter; i testimoni sostengono che avesse estratto una pistola. Mick intanto è ancora là che si sbraccia.
Fu il momento in cui il Rock sperimentò tutta la sua impotenza sul mondo reale. La sua impotenza nel “nutrire le teste” e nel cambiare le cose; la sua impotenza contro la violenza ed il dolore reali, non quelli contrabbandati dal palco in cambio di dollari e devozione. Eppure nei tre anni precedenti sembrava che il mondo potesse veramente diventare diverso; sembrava che la Musica potesse essere il grimaldello giusto per fare scattare la serratura; per divulgare parole e conforto. Caricarsi sulle spalle l’impegno e l’attivismo preludendo ad un mondo nuovo.
Oppure no? Scusate, sbagliavamo. Anche il Rock è un Prodotto, viene confezionato e inscatolato in dischi di plastica; viene distribuito massicciamente dall’alto, come le casse dell’UNICEF con il paracadute bianco, gettate agli affamati dagli elicotteri militari. Perché è un prodotto, e si tratta di vendere. Una verità che produttori e discografici conoscono benissimo e che gli artisti a volte fanno finta di dimenticare presto. Che cosa ci resta allora, in cui poter credere? Che cosa ci resta, a noi che stiamo sotto il palco, sbracciandoci per sfiorare quel barlume di celebrità che, siamo sicuri, renderà migliore ogni nostro eccesso, ogni nostro peccato? Siamo ad Altamont, un nuovo megaraduno, l’Olimpo della nostra generazione ci sfila davanti; ma il pubblico si scanna. E intanto Jagger si agita ancora sul palco, prova a cantare Under my thumb, ci rinuncia. Ha lo sguardo perso.
Il concerto finisce sordina, in uno sconforto irreale. L’ultima canzone è "Street Fighting Man", che con un titolo così, in una situazione del genere, suona allucinante anche a volume spento. Gli Stones spariscono. Su un elicottero rosso. Ci lasciano qui.
In un decollo da Apocalypse Now, tra i vortici d’aria delle pale, restano gli spettatori in fuga tra i campi notturni; come fantasmi, al buio, titubanti. In quella breve sequenza rallentata di Gimme Shelter c’è tutta la tensione e l’insicurezza che la fine di un decennio generoso si portava dietro. Cosa avrebbe riservato il futuro? Con un tenace repubblicano alla Casa Bianca e un conservatore altrettanto repubblicano al Governo della California (tale Ronald Reagan) parevano definitivamente sommersi il sogno e l’utopia; Nixon poi era un capro espiatorio fin troppo facile per ogni giovane contestatore che si sentiva in pieno diritto di imputargli ogni My Lai da li al 1972, spesso dimenticando che, in fondo, in Vietnam, Kennedy non fece nulla per evitare il conflitto…
Brancoliamo nella notte; attenti a non inciampare; a non fare rumore. L’ambulanza per Meredith Hunter, intanto, non ha nemmeno bisogno della sirena: dead on arrival…


Bound to follow you down



altamont_image004bCose rese questo concerto un tale disastro? Perché è ancora oggi una pagina così profondamente dipinta di nero? Gli eventi erano precipitati in fretta; i tempi erano precipitati prima che qualcuno potesse accorgersene. Acqua che scivola via dalle mani.
In primo luogo a essere fuori posto erano gli Stones stessi. Troppo fanatismo, troppa tensione, troppi  misteri, forse già troppa morte attorno ad un gruppo di superstar planetarie intoccabili, che nulla avevano a che spartire con i placidi orizzonti da raduno californiano, né tantomeno con la vita comunitaria “aperta” delle band della Baia. Sprezzanti tanto dell’acid rock quanto del “flower power” e del pacifismo da college democratico, i Rolling Stones erano supremi adoratori solo del proprio culto; autoreferenziali alla massima potenza e insensibili alle richieste e ai movimenti giovanili del loro periodo. In questo furono la prima Rock-Band da stadio anni ’70: megashow, buona musica, tanti soldi. La loro grandezza fu proprio nella continua simulazione e ostinata ambiguità che li fece attraversare gli anni dell’impegno e della partecipazione da protagonisti e capopopolo: qualche canzone di “protesta”, un album forzatamente psichedelico, alcune foto in corteo: tanto bastò a perpetuare l’equivoco; ma soprattutto, dopo avere emarginato Brian Jones, da qualche parte tra Beggars Banquet e Let it Bleed, il gruppo era diventato un grandioso manifesto a sé stesso, alla propria musica, alla propria essenza. Alla decadenza individuale. Fanculo i sit-in per la pace, le marce e la controcultura. Jagger, Richards e gli altri erano titani in grado di bastare (ma non di badare) a loro stessi, senza bisogno di escamotage. Era una posizione realista, a tratti cinica ma anche molto meno ipocrita di altre. La scelta di un ottimo quanto impersonale virtuoso come Taylor al posto dell’agitatore Brian Jones fu il chiaro segnale della strada che si sarebbe intrapresa. Cioè quella sopravvivenza e delle fama, prima di tutto.
Gli Hell’s Angels furono il secondo polo del raduno; eccessivi, ubriachi, inadatti al pari dei Rolling Stones a quel genere di platee, nonostante lo avessero già fatto per qualche anestetico piccolo concerto dei Dead.  Erano animali al di fuori del proprio habitat, scorazzavano con Harley-Davidson fumanti tra la gente dispensando sonori cazzotti anche ad artisti pacifici come i Jefferson Airplane, per altro capitanati da una ragazza. Macho Man.
Il terzo attore, come sempre, è il pubblico. La folla, i fans. Forse erano gli unici al posto giusto. Droga, hasish, stupefacenti di ogni tipo, alcool; in tanti pateticamente fuori di testa; ma appena 3 mesi prima a Woodstock era filato tutto liscio, no? E allora tanto vale sballarsi ancora una volta, l’ultima, forse per quell’anno; l’ultimo vero sballo dei Sixties. Peccato che tra il pubblico ci fosse anche Meredith Hunter. Diciottenne, nero, fatto di metanfetamina; con una pistola in tasca. Pessimo mix. E l’occhio immorale delle telecamere non tralascia particolari: nel bel mezzo di Under my Thumb, Meredith Hunter estrasse quella pistola e sembrò puntarla contro il palco. Non è raro quando sono in gioco personalità come Jagger, Lennon, Page: alcuni li attirano certi spostati. Ma il perché di quel gesto sconsiderato è ancor’oggi un mistero. La pistola stessa non fu mai ritrovata o messa agli atti. L’intervento tempestivo quanto violento di Alan Passaro, Hell’s Angel di professione, sventò la minaccia. Jagger adesso può continuare a cantare.

Ma se quella pistola avesse veramente sparato; sparato sui musicisti; se Hunter, facendo del suo nome una missione, avesse preso la mira; e magari colpito il cantante sul palco.
Jagger giace riverso su un fianco, il sangue gli scorre attorno e lungo le gambe. Richards smette di suonare e sbatte la chitarra contro il pubblico; i roadies degli Stones approntano una barella improvvisata e trasportano Mick dietro al palco. L’ambulanza si fa lentamente strada tra la folla. Troppo tardi.
Il cantante viene dichiarato morto appena un’ora dopo. Il suo corpo è ancora riverso sul retro palco, coperto appena da un telo di plastica che rivestiva un amplificatore. Non c’è stato tempo per cantare.
Fans in lacrime; il cordoglio del mondo della musica, giorni di psicosi collettiva; niente Brown Sugar, niente Soul Survivors, niente Angie; Richards che prova a portare avanti il gruppo con Paul Rodgers finchè non viene trovato morto per overdose nella sua stanza d’albergo a New York. La vendetta di Brian Jones.
No.
Niente di tutto questo.
Meredith Hunter, fortunatamente per tutti, non ha mai sparato. E’ morto in ambulanza, sfortunatamente per lui. Alan Passaro fu accusato di omicidio e poi prosciolto: gli fu riconosciuta la legittima difesa. Morì nel 1985 con 10.000 dollari in tasca; fu ripescato in un lago della contea di Santa Clara. Altra strana storia.
Sam Cutler restò in America il tempo di dirimere gli strascichi che la vicenda ebbe sull’opinione pubblica; poi si affiliò alla congrega dei Grateful Dead.
Jagger si agita ancora sul palco sforzandosi di cantare; ad Altamont si consumò solo un sacrificio minore. Oltre al povero Hunter, a farne le spese fu Simpaty for thr Devil, considerata foriera di sventure per via della sua aura sulfurea e dei suoi riferimenti al Maligno: fu bandita dai concerti per anni. Ma la musica, in generale, non era più la stessa già da tempo.
L’evento fu subito percepito come la “fine delle utopie” o la “morte della Woodstock Nation”. Per l’opinione della massa era senz’altro corretto. Ancor’oggi l’etichetta è calzante ma ormai satura. In realtà le utopie erano finite da tempo; proprio in quanto tali, potenti, futuribili, già nella formulazione ne era insita la loro impraticabilità. L’utopia è idea allo stato puro, senza realizzazione, altrimenti diviene “progetto”. Le più pure durano lo spazio di un pensiero, come i fiori di cactus che sbocciano al tramonto e sfioriscono all’alba. Lo si percepì forse già tra le schiere musicali di Monterey, pur nella sincerità di quell’evento.

In un mondo perfetto basterebbe ascoltare Musica per risolvere dubbi, alleviare il dolore, trovare la felicità. Musica perfetta; ascolto perfetto; come dovrebbe sempre essere.
Altamont non sarebbe dovuta esistere. Fu l’argomento definitivo per spegnere certa musica e parecchi ideali.




Immagini

Let it Bleed, copertina (scansione da originale)

Gimme Shelter, locandina
Gimme Shelter, frames tratti dal film di Albert Maysles, David Maysles e Charlotte Zwerin

Frames tratti da Watchman di Zack Snyder, 2009




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