Speciale Back Catalogue: UFO
Someone's gonna have to pay - Il costo del rock


Articolo a cura di Arcangelo Accurso - Pubblicata in data: 08/06/13
In questa rubrica ho sempre parlato del passato, perché lì mi rivolgo convinto che più di recente e nel presente ci sia poco da apprezzare. Sono opinioni, e la conseguenza è che chi mi legge probabilmente sia un rockettaro con qualche anno in più come me, difficilmente i ragazzi di oggi. Ma continuo a pensarla così, a riferirmi alla musica inglese più che a quella americana (a parte quella nera), e a non trovare troppa soddisfazione in quello che si pubblica perché non mi emoziona, sempre secondo la mia esigenza di sensibilità musicale. La musica d'altronde, come ogni espressione umana, e figlia dei suoi tempi, li descrive (bene o male), quindi oggi ci teniamo la musica che è influenzata dal presente, che ci piaccia o meno. Così, anche se mi sforzi di restare al passo con le novità, di norma continua sempre a colpirmi ciò che mi parla secondo canoni oggi meno usati, perché mi tocca, mi fa star bene; innanzitutto per il suono, eventualmente poi anche per le parole.

Quello degli UFO è un gruppo inglese credo poco conosciuto da noi, nato addirittura alla fine degli anni ’60, attivo per tutti questi anni e tuttora ma che è stato caratterizzato da una continua e disastrosa serie di cambiamenti interni in cui, attorno al nucleo base che più o meno lo ha sempre costituito, ha ruotato un’infinità di musicisti. Nel 2002 la band pubblica “Sharks”, un lavoro che in chiave aggiornata mantiene lo stile espressivo del gruppo, che negli anni è passato dall’hard rock all’heavy metal per transitare e finire col ristagnare nel gran calderone britannico di proposte di rock pesante che resistono ma continuano un po’ a rimuginare se stesse. Nella massa di album e di brani qua e là però si trova ancora qualcosa che ha un seme, una scintilla di quello che il rock ha significato, anche se forse conviene rassegnarsi al fatto che il rock non sia più capace di rappresentare l’epoca moderna. Nonostante tutte queste premesse e queste avvertenze, tuttavia l’album in questione è discreto e contiene un brano su cui mi sento di attirare l’attenzione, che è “Someone’s gonna have to pay”.

La canzone è un esempio di “boogie rock”, con temi ripetitivi e insistiti, molto ritmati, dai toni bassi e profondi, con le chitarre in evidenza e ben distorte che come armi disegnano una melodia lancinante, a tratti psichedelica. Phil Mogg ci canta sopra con voce dura, roca, mettendoci tutta la sua rabbia, la sua convinzione. È un gran pezzo, carico di “groove” e di sostanza, che scalda, “riempie”. A sentirlo così potrebbe sembrare un brano dei Gov’t Mule, ci si potrebbe benissimo vedere la mano di Warren Haynes, niente di sorprendente nel confondersi, anche perché il boogie attinge chiaramente dal blues e quindi da forme musicali più tipiche degli americani. Invece è un pezzo inglese, con un testo corposo, alterato dalla cattiveria e insofferente, frazionato in immagini, che esprime bene con amara ironia tutta la ribellione verso ciò che ha stufato, che si vorrebbe cancellare, distruggere e da cui, finalmente, liberarsi. È una protesta, definitiva e totale, che non ammette più attese, discussioni né compromessi. Non lo si capisce solo dal testo ma già da una certa brutalità della musica. È un “Basta!” a caratteri cubitali, urlato da chi adesso ne ha proprio fin sopra i capelli e ha deciso che ora tocca a lui dire come la pensa.

Però perché scrivere di questo, perché soffermarsi? Ma perché un brano così è rock simbolico e dovrebbe essere salvato, dovrebbe essere tolto dall’anonimato in cui certamente è caduto, passato sotto silenzio, soffocato dall’indifferenza, che è un’arma potentissima per eliminare ciò che minaccia, che è scomodo e fastidioso. Il testo parla della vanità vuota, della menzogna, del raggiro, della prepotenza, del sopruso sociale, evoca esplicitamente la rivoluzione. Ecco; se la musica oggi si ricordasse della forza evocativa che ha, che ha avuto solo qualche decennio fa, se oltre che intrattenerci con qualche motivetto facesse qualcosa di più, riprendendo coscienza e riappropriandosi della propria capacità di parlare e rappresentare la gente, forse sarebbe più utile, più completa. Fin tanto che continueremo invece a sentire distrattamente rassegnati le canzoncine che vanno tanto per la maggiore ultimamente, salvo quello che ancora di buono si fa ma che ci si deve andare a cercare negli angoli della produzione mondiale, la musica avrà perso, e noi tutti con lei. Mettere sempre l’individuo al centro del discorso, di cui cantare più spesso l’amore e la disperata solitudine, talvolta le difficoltà, i drammi personali, la propria malinconia, le delusioni e le sofferenze esistenziali, così come le sue piccole conquiste nella realtà del consumismo, può sempre essere fatto, ma forse adesso è stato fatto abbastanza; se non si capisce questo, ed è ora che lo si capisca, non cambierà niente e la musica continuerà a rispecchiare questo mondo del bisogno personale, che sembra finito in un vicolo cieco. Quando si inizieranno invece a sentire tanti altri brani come questo magari ci divertiremo di più, e significherà anche che finalmente sta per succedere qualcosa.


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