SpazioRock presenta: Back Catalogue #12
Con Arcangelo Accurso indaghiamo la scena rock inglese dei gloriosi anni '70


Articolo a cura di Arcangelo Accurso - Pubblicata in data: 04/12/12
BACK CATALOGUE #12: TRAFFIC

Essere davanti a tutti, avere una marcia in più degli altri, nella vita conta. Perciò quando, all’età di 19 anni, Steve Winwood a Birmingham partecipa alla costituzione del gruppo dei Traffic può contare su se stesso perché è già un veterano. Ha iniziato a suonare ad otto anni e da quando ne aveva quindici è un professionista affermato, per aver fatto parte del progetto dello Spencer Davis Group, con cui ha già ottenuto grandi successi discografici. Assieme a Dave Mason, Chris Wood e Jim Capaldi (figlio di immigrati italiani) nel 1967 dà vita ad una delle band più significative della storia del rock. Li unisce e li sorregge l’obiettivo di creare una nuova musica, una forma libera, una sintesi personale per riassumere le tendenze che stavano emergendo all’epoca.

I quattro sono capaci e a loro modo già maturi, hanno chiaro in mente cosa vogliono fare e, nonostante un debutto precipitoso con “Reaping”, sempre nel 1967 pubblicano un secondo album, “Mr. Fantasy”; il lavoro ha varie influenze, beat, psichedeliche, folk e rock, ma è in buona parte un tipico esempio di interpretazione rhythm’n’blues assolutamente allineato allo stile del momento. Elemento non trascurabile, inserisce nella sua esposizione il sax (che Wood alterna al flauto) in una posizione di evidenza che non è caratteristica del pop europeo, ma lo è piuttosto della musica americana; ovviamente l’uso che ne fa Wood è molto diverso da quello mediato dal jazz o dalla musica nera. L’album è spontaneo, irrituale, insolito ed originale, per questo si mette subito in evidenza; “Dear Mr. Fantasy” e “Dealer” sono già il marchio del gruppo, destinati a diventare dei classici. Su questi presupposti nel 1968 arriva la pubblicazione di “Traffic”, mentre non si capisce bene quanto Mason sia veramente parte del gruppo, vista la sua presenza irregolare. Stavolta però ne risulta un disco incerto, fatto di episodi slegati; la freschezza in parte sembra appannata ed i brani paiono messi assieme senza una vera logica. I primi a percepirlo sono i membri stessi del gruppo, a cominciare da Winwood che infatti lascia e va a formare nientemeno che i Blind Faith, un super-gruppo a cui si associano Ginger Baker, Ric Grech e Eric Clapton. Ma pur impegnato per due anni in questa nuova formazione, Winwood continua a sviluppare un proprio lavoro ed a restare in contatto con i vecchi compagni. In questa situazione confusa, con Mason ormai ai margini del progetto, i Traffic producono un altro lavoro per certi versi interlocutorio, “Last Exit” (1969), dove però riaffiora la brillantezza e l’esposizione prende la direzione voluta da Winwood verso una musicalità più ricca ed elaborata, cosparsa di blues e di jazz. “Shanghai Noodle Factory” è un gustoso assaggio di quello che verrà anche se non è ancora tutto pronto, al punto che la seconda facciata dell’album è formata da due brani non originali e dal vivo, registrati al Fillmore West di San Francisco senza il contributo di Mason, che presto si separa definitivamente dagli altri.

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Ma i tempi ormai sono favorevoli al compimento del progetto e nel 1970 l’evoluzione finalmente porta a “John Barleycorn Must Die”, uno dei più originali e significativi album di sempre nella storia del rock. Wood in particolare libera tutto se stesso e il suo flauto fa eco a distanza a quelli di Ian Anderson o Peter Gabriel, sulle architetture disegnate e innalzate da Winwood e Capaldi; ogni brano ha i crismi dell’assolutezza e l’insieme risulta nella fotografia di ciò che è sintesi rock: blues, jazz, beat, folk e improvvisazione consapevole. Il gruppo ha trovato la miscela della sua formula espressiva, che nel 1971 viene estesa al successivo “The Low Spark Of High Heeled Boys”; l’album concede più spazio a sonorità rock, con le parti di chitarra in maggiore evidenza che in passato, mentre “Rainmaker” riprende appieno e felicemente le atmosfere del lavoro precedente. Nel 1973 il gruppo arriva alla pubblicazione di “Shoot-Out At The Fantasy Factory”, proponendo un lavoro più studiato, meno di getto, fatto con cura ma pulito e ripulito al punto da perdere in parte le sue sostanze nutritive; le influenze jazz e beat si sono dissolte ed il tutto si riassume in un quadro ordinato ma più omologato. Il capitolo conclusivo della band è “When The Eagle Flies”, del 1974, un lavoro venato di soul, più melodico e appetibile al gusto di un pubblico più vasto, ma con episodi sempre credibili come “Dream Gerrard”; un compromesso finale, tuttavia sempre rispettabile e coerente verso la produzione passata.

I Traffic sono uno dei punti più alti espressi dal movimento rock britannico, uno degli esempi più riusciti di sintesi musicale pop. Sono una dimostrazione o una conferma che il genere in senso stretto o la canzone singola per quanto validi sono episodici, sono basati solo su uno spunto unico sfruttato (per quanto con maestria) al massimo della sua potenzialità, mentre invece l’espressione ha bisogno di idee continue, di sviluppo e di tentativi su tentativi per trovare realizzazione. Fare musica significa suonare e, suonando, inevitabilmente aggiungere elementi e ingredienti, in un processo che probabilmente dovrebbe andare più per arricchimento che per sottrazione, per arrivare solo dopo a modellare e a circoscrivere, al momento della rifinitura. Forse “Traffic” simboleggia anche questo, una forma di caos spontaneo ma ispirato che alla fine trova ordine e sbloccandosi si dipana, come un ingorgo.


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