SpazioRock presenta: Back Catalogue #11
Con Arcangelo Accurso indaghiamo la scena rock inglese dei gloriosi anni '70


Articolo a cura di Arcangelo Accurso - Pubblicata in data: 05/11/12
BACK CATALOGUE #11: CAMEL

Fra i gruppi meno ricordati ma più qualificati della scena del progressive britannico degli anni ’70 c’è quello fondato da Andrew Latimer nel 1971, i Camel. La band in realtà ha anche avuto un discreto successo discografico ma in particolare è parecchio considerata soprattutto fra i musicisti, al punto che la sua opera è oggetto di frequente rivisitazione da parte di molte formazioni di origine alquanto varia; ad esempio ha un buon seguito non solo in Italia, ma anche in Norvegia, Svezia, Giappone come pure in Egitto, Libano ed Iran.

Latimer inizia a suonare giovanissimo, è un chitarrista, canta ma si produce anche al piano e al flauto, strumenti che considera complementi essenziali nello sviluppo della sua musica; è per questo che il gruppo si completò davvero solo quando si inserì anche il tastierista Peter Bardens, che aveva già avuto delle esperienze significative con Peter Green e i Them di Van Morrison. Dalla collaborazione fra i due prende corpo l’insieme della prima produzione dei Camel, sei lavori fino al 1978.

L’omonimo album di debutto arriva solo nel 1973, cioè quasi al calare del periodo rock; in più è un disco in ritardo sul suo tempo, è acerbo, sia nella proposta musicale che nell’esecuzione, elementi che contribuirono a farlo passare inosservato. Nonostante ciò è ricco di proposte strumentali originali e articolate, pur mantenendo un’ingenua semplicità di base che lascia una patina di incompiutezza. Questi difetti sono stati in gran parte cancellati l’anno seguente con “Mirage”; il gruppo prende coraggio e osa di più, ottenendo di più. Qui Latimer non si affida solamente alla chitarra, ma sente di dover lasciare spazi più ampi al flauto per fondersi meglio con il moog ed i sintetizzatori di Bardens; è la scelta definitiva che pone i Camel al di fuori delle atmosfere rock classiche del momento, in uno spazio sospeso da esplorare attraverso l’immaginazione. Non per niente “Lady fantasy” è il brano più emblematico, mentre “Freefall” mantiene in evidenza gli echi di espressioni ritmate più concise. Ormai la band ha individuato la sua direzione e con la pubblicazione di “The snow goose” nel 1975 si sposta decisamente nel campo della narrativa concettuale; il lavoro è ispirato alla novella del 1940 di Paul Gallico, in cui si prefigura la rinascita dalla guerra del protagonista (e del mondo) attraverso i benefici influssi della solidarietà e dell’amicizia (valori oggi quantomeno in crisi). L’album è interamente musicale ed ha un’unitarietà assoluta; la rinuncia alle sonorità dirette del rock è quasi totale.

camel_backcatalogue_2012_02_01“Moonmadness” del 1976 segna forse il maggior successo commerciale del gruppo, all’insegna di una linea di esposizione immutata e costante; ma a lungo andare questo diventa allo stesso tempo il loro pregio e il loro limite, con Bardens che sembra sempre troppo impegnato a raccontare sé stesso, senza tener conto del resto del mondo che intanto cambia sempre più velocemente. Infatti il successivo “Rain Dances” (1977) mostra un evidente cambiamento nella forma espressiva, limitando e definendo meglio le tipiche digressioni musicali; il linguaggio è più imprevedibile ed accoglie sfumature jazz e cambi di registro talvolta improvvisi, contribuendo molto a movimentare la linea narrativa. È una formula di compromesso che rende più attuale la proposta del gruppo senza snaturare la propria ispirazione. La tendenza si conferma con il seguente “Breathless”, in cui qua e là i Camel prendono ancor più le distanze da quei luoghi immaginari e lunari che avevano abitato stabilmente per anni; “Down On The Farm” sembra presa dal repertorio dei Caravan, “Summer Lightning” apre uno squarcio verso nuovi orizzonti musicali, “The Sleeper” accoglie un corposo rinnovamento sulla timbrica e si lancia in rapide incursioni dal gusto fusion. Lo shock è deciso, infatti l’album precede anche la fine della collaborazione fra la band e Bardens, che lascia il gruppo dopo averlo notevolmente caratterizzato e forse anche condizionato, pur nella consapevolezza di Latimer.

I Camel per certi versi forse rappresentano l’altra faccia degli Yes, quella che non ha voluto abbandonare i luoghi incantati descritti dalle tante copertine dall’atmosfera fantasy create da Roger Dean (con cui peraltro non collaborarono mai). La loro musica è oltremodo senza tempo, per questo rimane un episodio molto credibile di quello che si è voluto chiamare progressive. Non sono migliori né peggiori di altre band, ma la loro musica davvero racconta un non-luogo che in quanto tale resta immobile, permanente. Chiaramente questo in parte ha finito col penalizzarli verso il pubblico, ma li ha rafforzati verso la comunità musicale. Forse di certi loro limiti hanno saputo beneficiare gruppi come i Supertramp, che hanno messo a fuoco meglio alcune controindicazioni ed hanno preso solo gli spunti necessari per ottenere trasformazioni più attuali, o forse solo più facilmente comprensibili. Ma l’unicità della loro tematica ha un peso specifico incontestabile, al punto che i Camel vengono ciclicamente ripresi da musicisti di epoche successive, come ad esempio hanno fatto più recentemente gli Opeth. Perché restano un’espressione sospesa, che in quanto tale si presta ad essere riconsiderata per essere sviluppata verso dimensioni ulteriori; in fondo progressive letteralmente indica anche il progredire.


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