SpazioRock presenta: Back Catalogue #10
Con Arcangelo Accurso indaghiamo la scena rock inglese dei gloriosi anni '70


Articolo a cura di Arcangelo Accurso - Pubblicata in data: 03/10/12
BACK CATALOGUE #10: SAVOY BROWN

Il detto “nemo propheta in patria” potrebbe ben adattarsi alla vicenda di Kim Simmonds e dei suoi Savoy Brown che, pur essendo pienamente inseriti nello stesso contesto spazio-temporale del movimento rock britannico, hanno avuto un buon successo negli Stati Uniti senza raccogliere lo stesso consenso a casa propria (né in Europa). Alla base di questo ci sono state inizialmente le condizioni che la scena inglese aveva assunto al tempo in cui la band si formò e cominciò ad esibirsi nei locali londinesi. I presupposti per un cambiamento infatti non erano ancora del tutto compiuti quando il gruppo iniziò la sua attività, nel 1965; era una fase cioè in cui la richiesta musicale locale era ancora condizionata largamente dalla musica da ballo, nonostante il successo dei Beatles e sebbene i Rolling Stones ed altre formazioni già tentassero di proporre stili e linguaggi diversi. Per intendersi il blues in versione bianca, che sarà all’origine del rock, ancora non era concepibile (infatti ad esempio John Mayall continuava a vivere in America) e le difficoltà di affermazione per chi lo voleva interpretare non erano poche. Ma a dispetto di questa situazione la band mantenne la sua impostazione, fino a pubblicare il primo album nel 1967 per la Decca; ovviamente “Shake down” era un disco di blues, di cover blues di Willie Dixon, B.B. King, John Lee Hooker, Albert King ed altri.

Non fosse bastato questo, Simmonds mostrò ben presto la sua intransigenza nel voler dominare l’attività del gruppo, atteggiamento che ha mantenuto nel corso di tutta la carriera e che ha determinato, sin dall’inizio, un’instabilità permanente all’interno della band e che ha disturbato non poco un possibile processo di affermazione commerciale. Su questi presupposti affatto incoraggianti nel 1968 uscì comunque il loro secondo lavoro, “Getting To The Point”, anch’esso ampiamente basato sull’offerta di cover di blues tipicamente nero. Questa matrice radicale fu poi ostinatamente applicata anche ai successivi “Blue Matter” e “A Step Further”, nei quali i Savoy Brown passano quasi esclusivamente a brani originali ma sostanzialmente insistono nell’affidarsi ad un blues primario, poco disponibile ad accogliere le sonorità rock che si stavano imponendo e invece orchestrando anche pianoforte e fiati, tardando ad abbracciare la formula chitarra, basso e batteria che si stava affermando all’epoca. Insomma, andavano volontariamente controcorrente sperando di essere apprezzati, finendo per ottenere il risultato opposto che loro malgrado alla fine dovettero constatare. L’approccio però riscosse qualche approvazione iniziale negli Stati Uniti, dove non a caso questa musicalità era più familiare, fattore chiave che da lì in poi indirizzò sostanzialmente il loro cammino.

savoybrown_backcatalogue10_02È con “Raw Sienna” (il terzo album che pubblicano nel corso del solo 1969) che le cose iniziano a cambiare. Infatti la band, pur mantenendo la sua originalità basata su orchestrazioni di un blues spesso elementare, inserisce finalmente in modo più convinto elementi beat e rock, ottenendo una miscela molto particolare e più accattivante; per arrivare infine nel 1970, con l’ingresso nel gruppo di Dave Peverett, ad un blues-rock più deciso nell’album “Looking In” che, con un’ulteriore sterzata, si tinge addirittura di cenni country in “Street Corner Talking”, accogliendo atmosfere tipiche del mercato americano in cui la band si era ormai segnalata. Il successivo “Hellbound Train” è un lavoro ancora in parte differente, eterogeneo e influenzato da nuovi cambi nella formazione, con episodi però sempre più convincenti come nel brano che da’ il titolo all’album. Con “Lion’s Share”, “Jack the toad” e “Boogie Brothers” negli anni seguenti i Savoy Brown arriveranno poi addirittura a rievocazioni rock’n’roll e boogie, spingendo spesso il pianoforte al centro della loro espressione; scelte che rimarranno nella produzione futura. Siamo ormai alla metà degli anni ’70 ed il gruppo, per quanto sempre affollato da elementi di passaggio, ha raggiunto una fisionomia espressiva definitiva; ad oggi conta una trentina di album, dove blues e rock sono esposti in una chiave prevalentemente boogie che si discosta parecchio dal gusto che invece col tempo si è affermato in Europa.

Insistere può ripagare; lo dichiara apertamente Simmonds (vero elemento centrale dei Savoy Brown), che del mantenere le sue convinzioni ha fatto un punto d’onore nella sua esperienza di musicista. Certo, per ottenere questo risultato ha dovuto sacrificare qualcosa, come trasferirsi negli Stati Uniti dove la sua inclinazione era meglio accolta ed apprezzata. In fin dei conti però ciò è stato benefico, perché godiamo di una variante rock che dalle nostre parti non si sarebbe sviluppata, come dimostrano le fasi hard, metal e punk che invece si sono succedute. Simmonds ha rischiato, ha fatto di testa sua quando tutti gli dicevano il contrario e quando anche il mercato gli dava torto; chi non era con lui è finito fuori dalla band. Ma il boogie rock è stato ripreso da più progetti (ad esempio da Bill Wyman) anche negli anni ’90, quando il rock tradizionale ha preso sempre di più a boccheggiare, confermandosi un gran serbatoio di buona musica, musica allegra.

Questa esperienza (quasi illogica) che esiti potrebbe avere oggi? Quali possibilità concrete ci sono per dare spazio e visibilità a generi originali ma ritenuti poco commerciabili, senza camuffarli da fenomeni di revival ritenendo così di renderli accettabili? Fino a quando varrà la regola per la quale una formula vincente non si cambia, a costo di essere ripetitivi fino allo sfinimento? È anche così che siamo finiti sepolti dal manierismo e dal neo-pop indifferenziato?


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