SpazioRock presenta: Back Catalogue #8
Con Arcangelo Accurso indaghiamo la scena rock inglese dei gloriosi anni '70


Articolo a cura di Arcangelo Accurso - Pubblicata in data: 17/07/12

BACK CATALOGUE #7: PAICE, ASHTON & LORD


Quando nel 1976 i Deep Purple arrivano alla decisione di sciogliersi, dopo aver già tenuto insieme almeno una volta i pezzi a seguito della separazione da Gillan poi sostituito con Coverdale, ognuno dei membri è alla ricerca di nuovi percorsi e progetti musicali. Per conto suo Lord si rimette in contatto con Tony Ashton, con cui aveva già collaborato nel 1974, e porta con sé Ian Paice; subito il trio si costituisce in un sodalizio con l’aggiunta di Marsden alla chitarra e Martinez al basso e nel 1977 pubblica un album, “Malice In Wonderland”, che rimarrà anche il solo lavoro in studio di questa formazione. Il disco è un unicum assoluto, qualcosa che per Lord e Paice rimane al di fuori della propria espressione consolidata nel solco dell’hard-rock, in cui i musicisti si sbizzarriscono e si divertono ad inserire ed accentuare di volta in volta elementi musicali compatibili ma diversi; dal rhythm’n’blues al funk, dal rock al blues, impreziosendo i brani con cori femminili o assolo di sax. La partecipazione di ognuno è assoluta e gli esecutori sono al massimo, con interpretazioni scintillanti a cominciare da un sorprendente Ian Paice, in una successione di pezzi frizzanti e trascinanti dove tutti danno il meglio di sé.

Ripercorrendo la serie delle tracce, “Ghost Story” offre dall’inizio l’impronta dell’album, innestando su un brano di stampo rock un inciso funk con tanto di incursione di fiati; l’impostazione eclettica di questo lavoro si fa ancora più evidente nella successiva “Remember The Good Times”, dove su una base rhythm’n’blues si inseriscono elementi rock come il riff o l’assolo di chitarra, e così di seguito. I brani si susseguono in una sequenza che sembra caratterizzata più che altro da un senso di libero divertimento, espresso anche in testi improbabili come in ”Silas & Jerome”, ma soprattutto sempre dalla varietà del registro musicale; in “Dance With Me Baby”  Lord mostra come saldare ragtime e rock, “On The Road Again” è un funk rock sincopato col sax in evidenza in cui si esalta Paice, “Sneaky Private Lee” è una fantasiosa proposta rhythm’n’blues che precede “I’m gonna stop drinking”, un blues ricercato e pieno di rifiniture e dettagli, per terminare in maniera irrefrenabile, tirata e coinvolgente con spruzzi jazz nel brano che da il titolo alla collezione.

 

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L’eccezionalità e l’originalità di questo esperimento sono certificate dalle successive riedizioni che il lavoro ha avuto, grazie al favore che ha riscosso; l’album infatti viene ripubblicato su cd una prima volta nel 1995, occasione in cui vengono aggiunte tre tracce dal vivo su cui spicca una versione del famoso “Steamroller Blues” di James Taylor. La ristampa del 2001 poi addirittura lo trasforma in un doppio album, dove figurano ben sette brani che la band aveva già inciso come base iniziale per la pubblicazione del secondo episodio della serie, che però non venne mai alla luce.

"Malice In Wonderland" come si è capito è uno di quegli eventi musicali unici nella loro specie; non che manchino altri esempi di questo tipo, magari non sempre riusciti, visto che occasioni di collaborazione nella storia del rock ce ne sono state tante. Ma quello che va sottolineato di proposte simili, al di là della godibilità di questa in particolare, è altro, e cioè l’occasione che ci da di osservare e valutare la solidità musicale dei loro protagonisti in contesti molto diversi da quelli in cui siamo abituati a vederli. In buona sostanza, ascoltare la versatilità e la bravura di Lord e Paice in situazioni parecchio distanti da quelle tradizionali espresse nei Deep Purple, spiega più di tante parole perché loro e i loro dischi sono rimasti nella storia del rock e tanto altro invece no. La solidità musicale di alcuni interpreti cioè si misura anche con la loro capacità nell’esprimersi ad alto livello pure su terreni meno praticati, ma offrendo sempre credibilità musicale.

Nel panorama musicale odierno sfide simili spesso sono considerate con una certa circospezione, a meno che non siano dei mostri sacri ad affrontarle, come Elton John e Leon Russell in “The Union” (2010); personaggi di questo calibro non temono di certo il confronto, non se ne curano, ne sono abbondantemente al di sopra. Ma fra le presunte rock-star dei nostri giorni in quanti si azzarderebbero a mettersi in gioco su questo piano? Viene piuttosto da pensare che se ne tengano prudentemente alla larga, per evitare accostamenti molto pericolosi o performance incerte. Sono le solite considerazioni sulle prospettive e sulle possibilità di sopravvivenza e di evoluzione del genere; che futuro si può garantire infatti il rock se non rischia, se non viene sostenuto nel suo desiderio di sperimentare, fondersi e mescolarsi tentando qualsiasi combinazione possibile? Che significato e che valore artistico ha nel rock la specificità, la specializzazione esasperata, il rifugiarsi in formule rassicuranti ma sfruttate? Una musica che si esprime secondo questi limiti, o peggio per sottrazione, può ancora essere chiamata “rock”?


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