SpazioRock presenta: Back Catalogue #5
Con Arcangelo Accurso indaghiamo la scena rock inglese dei gloriosi anni '70


Articolo a cura di Arcangelo Accurso - Pubblicata in data: 02/05/12
BACK CATALOGUE #5: ROBIN TROWER

Mi sono chiesto molte volte che mondo sarebbe stato musicalmente se Jimi Hendrix fosse vissuto più a lungo ed abbastanza anche per dar vita al progetto che aveva ipotizzato con Emerson, Lake & Palmer e che si sarebbe chiamato H.E.L.P. Peccato, nessuno lo saprà mai, ma non posso, ogni volta che ascolto Robin Trower, impedire che nella mia coscienza si ricrei la convinzione che la sua musica sia uno dei prolungamenti più verosimili della musica che Hendrix forse avrebbe espresso. Trower è stato spesso criticato per aver apertamente adottato lo stile esecutivo di Jimi; a me viene il sospetto che chi lo fa denunci una buona dose d’invidia per non essere a sua volta in grado di farlo. Penso piuttosto che Trower sia uno dei migliori esponenti di sempre della scena blues-rock britannica, capace di offrire brani pienamente caratteristici di questo genere sui quali ha cucito su misura l’inconfondibile suono potente ed ululante della Stratocaster. Mentre il primo a non averlo fatto con la stessa energia e naturalezza è stato ad esempio Eric Clapton.

Trower mostra la stessa inclinazione di tanti suoi coetanei dell’epoca e si avvicina molto giovane all’universo musicale, finendo presto al centro della sua attività; raggiunge l’amico Gary Brooker e partecipa alla grande stagione dei Procol Harum, contribuendo a tutti i loro primi, gloriosi album. Si separeranno nel 1971 all’inseguimento di progetti musicali diventati molto diversi. Dopo due anni infatti Trower arriva alla pubblicazione del suo primo lavoro personale, “Twice Removed From Yesterday”, un disco nel quale denuncia da subito la sua necessità musicale, mostrando quanto può fare un semplice trio composto da chitarra, batteria e basso, tutto ritmo e carica. L’uscita successiva è subito quella della consacrazione, l’album simbolo della musica di Trower, “Bridge Of Sighs”, l’affermazione di un blues corposo, saziante, totalmente raffigurato, insistito e a tratti psichedelico; frasi continue, in sequenza, che rendono un linguaggio scorrevole, trascinante e diretto, esposto dalla chitarra di Trower prima ancora che dal suo canto; “Little Bit Of Sympathy” pulsa, batte, scuote, ma in un insieme in realtà bilanciato, pulito, totalmente padroneggiato nell’esecuzione. Da lì proseguirà il cammino di Trower anno per anno, in un percorso sempre lucido fatto di sostanza e coerenza; infatti nel primo periodo si susseguono “For Earth Below” nel 1975, “Long Misty Days” nel 1976, “In City Dreams” nel 1977, “Caravan To Midnight” nel 1978 e “Victims Of The Fury” nel 1979, nei quali Trower approfondisce ed esplora tutte le potenzialità del rock-blues, rinnovando la stessa formula ma senza mai ripetersi o perdere la misura, dando dimostrazione pratica di quanto il fraseggio blues applicato alla forma rock possa costituire un giacimento inesauribile da sfruttare a volontà in chiave espositiva.

backcatalogue_speciale_quintapuntata_02_01La sua continua spinta creativa nel 1981 lo porta a raggruppare attorno a sé Keith Reid, Jack Bruce e Bill Lordan in un progetto che va evidenziato a parte e si concretizza in un album ancora una volta carico di contenuti, “B.L.T.”. I brani sono come sospesi nel tempo, intrisi di linguaggi musicali in voga quindici anni prima; ma niente ha perso di attualità o di incisività a cominciare da “Into Money”. L’esperienza andrà avanti con la pubblicazione di “Truce”, sempre alla ricerca di nuovi modi per miscelare rock e blues, sperimentando innesti che diano altre forme ibride, varianti inaspettate e spettacolari. Dopo questa parentesi Trower ritornerà alla produzione solista, che dura tuttora, con episodi rimarchevoli come “20th Century Blues” (1994), l’eloquente “Living Out Of Time” (2004) o “What Lies Beneath” (2009). Tutti gran bei dischi, se il mio sfacciato gradimento è ancora ammissibile e la mia obiettività ha ancora un minimo di credibilità.

Trower mette al centro della sua musica la chitarra e l’impianto ritmico in una proposta che sembra ben definibile come “power-blues”, anche se col tempo si inseriranno a turno elementi jazz, funk e pop. Certo, due dozzine di album in quarant’anni di carriera non sono stati esenti da flessioni nella qualità, ma Trower è un esempio della sconfinata versatilità che il blues mette a disposizione e dimostra che non basta una vita per esaurirla tutta. Vivere al di fuori del tempo, come lui stesso ammette, è una cosa poi così riprovevole? Non solo: considerare il blues un territorio così vasto e ricco da rivelare, significa davvero vivere fuori dal proprio tempo, nel passato? Forse Trower ci prova il contrario, forse invece ci spinge a considerare che esistono forme musicali talmente eclettiche che non si possono considerare sviscerate ed accantonabili nel giro di pochi anni, assecondando una deriva culturale influenzata dal consumo compulsivo che porta a chiedere subito e ancora qualcosa d’altro. Qui sta l’essenza del blues, come quella del rock; hanno segnato un’epoca ma non l’hanno archiviata. È per questo che entrambe riaffiorano, perché un sistema li ha seppelliti quando ancora erano vivi, e da sotto continuano a germogliare, inarrestabili, vitali. Ecco perché continuiamo a scrivere ed a leggere di rock, e non ci stanchiamo mai di suonarlo e ascoltarlo.


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