SpazioRock presenta: Back Catalogue #4
Con Arcangelo Accurso indaghiamo la scena rock inglese dei gloriosi anni '70


Articolo a cura di Arcangelo Accurso - Pubblicata in data: 17/04/12

BACK CATALOGUE #4: RORY GALLAGHER

Il rock è stato un fenomeno britannico nel suo complesso, quindi anche irlandese. Una delle personalità di maggior spicco provenienti dall’isola di smeraldo, oltre ai grandissimi Van Morrison e Gary Moore. entrambe di Belfast, è Rory Gallagher. Rory è il tipico esempio di musicista completamente autodidatta che arriva a suonare perché incoraggiato dai genitori e si perfeziona attraverso i metodi più improbabili, fortunosi e rudimentali, facendo leva quasi esclusivamente sul suo interesse ed un talento istintivo, incontrollato. Senza mezzi, denaro, istruzione musicale, supporto e con una Stratocaster finalmente comprata a prezzo di sacrifici, si appropria dove e come può di esempi ed influenze musicali in un’Irlanda modesta e rurale agli inizi degli anni ’60. Suona, ripetendolo, quello che riesce ad ascoltare; skiffle, roots blues, folk e musica popolare, fino ad impadronirsi di un repertorio rhythm’n’blues e rock più aggiornato andando già da adolescente in giro a suonare con la band a cui si era aggregato. Dopo un lungo apprendistato nel 1966 forma a Cork un suo gruppo, i Taste, sotto le influenze blues-rock in voga in quel periodo; con loro pubblica un paio di album ed inizia a segnalarsi sulla scena londinese, acquisendo riconoscimenti ed una maggiore visibilità.

È negli anni ’70 che Gallagher esprime al meglio tutta la sua personalità suonando, come lui stesso ha sempre detto, quello che era continuamente dentro di sé. In quel periodo pubblicherà otto album in studio e due live, sostenendo al tempo stesso un’intensa, incessante attività dal vivo e facendo l’impossibile per avere almeno un tour irlandese ogni anno in un momento in cui il suo Paese era in una fase di gravi tensioni sociali e agli artisti era sconsigliato di esibirsi in pubblico. L’album del debutto solista del 1971 porta il suo nome; è una collezione mite e genuina di brani blues, rock e folk orchestrati con semplicità con la sua chitarra in evidenza (le poche parti al piano sono opera di Vincent Crane). Gallagher canta con spontaneità e sentimento, imponendo una presenza rispettosa e confidenziale che sembra rivelare quasi l’altra parte di Robert Plant; anzi, in alcuni casi Rory sembra addirittura riassumere in sé sorprendentemente sia Plant che Page (“For The Last Time”). Nello stesso anno pubblica “Deuce”, dove riversa l’altra metà della sua anima, quella più diretta e orientata ai suoni elettrici del rock, senza peraltro rinunciare allo sviluppo della melodia con proposte originali come in “Whole Lot Of People” o in “There’s A Light”. Il successivo “Blueprint” forse denuncia qualche difficoltà nell’inserimento del piano nella sua costruzione musicale, risultando complessivamente un lavoro di transito alla ricerca di nuove chiavi di esposizione. L’impaccio però è brillantemente superato col seguente “Tattoo”, in cui Gallagher trova quel bilanciamento che inseguiva e raggiunge una maturità superiore; l’esecuzione è totalmente padroneggiata, con costruzioni solide e varie, dove declinazioni blues, rock e jazz si fondono in piena armonia (“They Don’t Make Them Like You Anymore”, “Sleep On A Clothes Line” e “A Million Miles Away” ne sono chiara dimostrazione).

rorygallagher_backcatalogue4_speciale_02Con “Against The Grain” però torna ad attraversare una fase evolutiva poco leggibile, senza un orientamento apparente, che tuttavia poi si risolve in “Calling Card” (1976), forse il suo album migliore dove trova la sintesi perfetta di tutto ciò che ha da dire. Blues, rock, boogie, hard e jazz tutto assieme attraverso suoni puliti e aperti, per gridare al mondo che lui questa musica ce l’ha davvero tutta dentro il corpo; un compendio di tutto ciò che si intende per “rock”. Ma Gallagher non sa dominare la sua irrequietezza, oscilla come un pendolo alternando prove sicure ad altre che sembrano esperimenti; non che “Photo-Finish” sia un brutto album, ma manca di poesia, non trasmette ispirazione, cioè niente a che vedere col seguente “Top Priority” dove lo ritroviamo nuovamente schietto, sincero, energico e comunicativo. Un colpo d’ala a riconquistare quote perse volteggiando distrattamente. Continuerà a pubblicare ed a suonare instancabilmente fino alla metà degli anni ’90, morendo prematuramente a soli 47 anni.


Gallagher è un mito per gli irlandesi (a Cork gli vorrebbero intitolare l’aeroporto), perché è un puro, è tutto cuore ed onestà. Molti famosi musicisti lo indicano come un loro chiaro punto di riferimento: fra loro The Edge, Slash, Janick Gers, Glenn Tipton e Joe Bonamassa. Ha rappresentato e rappresenta come pochi l’essenza del rock, che è una musica che ti nasce dentro, che pressa, cerca sfogo e qualche volta sfiata anche confusamente. Ha mostrato che il rock è una pulsione che non si può comprimere o trattenere, che non ha una veste unica ma copre un’area che va dal blues al jazz; per farlo meglio è diventato anche un polistrumentista. Non è mai stato una rock-star, non ha impersonato il glamour e si è vestito preferibilmente di jeans. Questo spesso succede quando tutto quello che ti serve è la tua musica, e non c’è bisogno di altro per descriverti.




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