SpazioRock presenta: Back Catalogue #1
Dodici puntate a tema per riscoprire la scena rock inglese dei gloriosi anni '70


Articolo a cura di Arcangelo Accurso - Pubblicata in data: 05/03/12
L'idea alla base di SpazioRock non è soltanto quella di proporre ai propri lettori una panoramica esaustiva sulle imprese delle grandi star e sui nuovi volti del rock contemporaneo, osservato da un'angolazione che la nostra redazione apprezza particolarmente e che è uno dei nostri punti di forza, ovvero quella a 360 gradi. Chi ha seguito il nostro percorso in questi tre anni di attività sa che abbiamo sempre riservato un occhio di riguardo per le uscite “di nicchia”, non necessariamente inquadrabili in un'etichetta (da qui la sezione Off-Rock), così come sa che non sono mancate recensioni di grandi classici del passato e retrospettive sugli artisti più amati da voi fan.

Partendo da queste dovute considerazioni e dal successo che la musica degli ultimi decenni del XX secolo continua a riscuotere, abbiamo deciso di compiere un ulteriore salto di qualità. Con l'aiuto di Arcangelo Accurso, scrittore milanese e autore di saggi di critica musicale (il recente "Tra Arte e Rock" è un'attenta ricerca sulla natura artistica della musica rock nell'ambito della produzione pop occidentale) inauguriamo una nuova rubrica quindicinale intitolata “Back Catalogue”.

Nel corso di dodici puntate a tema ci impegneremo ad indagare gli anfratti nascosti di una realtà musicale spesso dimenticata, ma che ha saputo lasciare un segno nella storia del genere che più di tutti apprezziamo. Stiamo parlando della scena rock inglese dei gloriosi anni '70, ricca di nomi da riscoprire e rivalutare. Siete pronti per questa nuova avventura? Nella speranza che la rubrica possa essere di vostro gradimento, vi invitiamo a leggere il primo articolo dedicato ai Trapeze, a farci sapere cosa ne pensate tramite i nostri social network e, come sempre, ad unirvi al nostro grido di battaglia... Rock on!


BACK CATALOGUE #1: TRAPEZE

Anche se so che molti vorrebbero contraddirmi e che sono in tanti a pensare che il rock degli ultimi decenni sia fenomenale e ricco di grandi proposte, io resto della mia idea, convinto del fatto che a partire dagli anni ’80 di buon, vero rock se ne sia sentito (nonché prodotto) proprio poco. State tranquilli, non voglio far cambiare opinione a quelli che non la pensano come me. Desidero piuttosto attirare l’attenzione di un pubblico più vasto su una schiera, davvero nutrita, di gruppi e musicisti che hanno contribuito a dare forma al genere, sia a quello delle origini che a quello che è venuto in seguito.

Pensando a questo obiettivo istintivamente ho ricordato un gruppo che rappresenta bene questa trasformazione, da un rock della prim’ora meno rifinito ma pieno di sostanza a quello successivo, più curato e intrigante ma manieristico e meno solido. La band in questione è quella dei Trapeze, e spero che siano davvero in pochi a ricordarla, così che ci sia maggiore interesse ad andarla a scoprire, come merita. Il gruppo si forma lontano da Londra, nel cuore dell’Inghilterra prima rurale e poi mineraria, lo Staffordshire, alla fine degli anni ’60; in quel periodo cioè in cui un’intera generazione di ragazzi inglesi cercava emancipazione e considerazione e per esprimersi si è inventata il rock, regalandocelo. In particolare i Trapeze sono emblematici in questo non solo perché ci hanno lasciato alcuni album di pura e godibilissima fattura, ma perché dissolvendosi i suoi membri sono andati a far parte di complessi che hanno lasciato una traccia ancora più evidente nella storia del rock di massa. Sto parlando di gente come Glenn Hughes (passato ai Deep Purple), Mel Galley (che si unirà ai Whitesnake) o Dave Holland (che andrà nelle fila dei Judas Priest).  La storia del gruppo è lunga e sconnessa e non certo costellata di successi commerciali, non tanto perché la loro musica non ne fosse degna, ma proprio per la natura irrequieta di queste formazioni che cercavano visibilità e spesso nel farlo si trovavano continuamente a fronteggiare divergenze al loro interno. Quindi, anche se la band ha continuato a pubblicare fino agli anni ’90 sotto varie composizioni, il periodo che più interessa è certamente il loro primo, fino al 1974.

backcatalogue_puntata1_speciale_trapeze_02Dopo l’omonimo album di esordio del 1970, nello stesso anno il gruppo pubblica “Medusa”, sempre tramite la Threshold Records, un’etichetta della Decca appena costituita nientemeno che dai Moody Blues. Il lavoro si inserisce perfettamente nella vena compositiva rock dell’epoca, con brani diretti, puliti, semplici e carichi di energia, dove i suoni sono distinti, nitidi, separati. La melodia è al centro dell’espressione musicale, che cerca spazio e profondità per raccontarsi fino in fondo. Ma mentre buona parte della scena locale si affidava ancora in gran parte al blues ed a suoi diretti derivati per comunicare, i Trapeze già cercavano timbriche folk e acustiche o introducevano ritmi più movimentati, dimostrando di essere in leggero anticipo su soluzioni che si imporranno musicalmente di lì a poco. L’album non ha mai raggiunto una notorietà assoluta, per scelte editoriali e commerciali, ma da tanta parte oggi se ne chiede la consacrazione perché è certamente un lavoro di rara e semplice qualità che ha influenzato molto di quello che si stava iniziando a chiamare hard rock.

A seguire, nel 1972 il gruppo pubblica “You Are The Music… We’re Just The Band”, proseguendo nella proposta di brani non sempre e necessariamente vincolati alla vena più dura, ma lasciandosi liberi di offrire anche soluzioni ibride, inclinando al funk ed al jazz e impiegando sax e vibrafono, per tornare rapidamente al rock puro senza perdere la sua tipica schiettezza. L’album quindi non solo mostra la versatilità e le capacità musicali del gruppo, ma mette anche in evidenza con quanto anticipo questi musicisti abbiano prefigurato variazioni e potenzialità compositive che oggi diamo per scontate, ma che nell’Inghilterra di quel periodo non lo erano affatto, considerando con quanta difficoltà circolassero ai quei tempi le influenze musicali, come pure le iniziali perplessità nell’azzardare certi accostamenti. Il colpo di coda i Trapeze lo danno nel 1974, con “Hot Wire”, nonostante l’abbandono di Hughes e dopo essere passati alla Warner Bros. Il disco mantiene una sua coerenza con i lavori passati, ma i riferimenti alla musica nera si fanno più precisi ed evidenti e gli accenni al funk ancora più indovinati. Il lavoro però è andato presto scordato, senza motivo, perché non è meno fresco e coinvolgente dei suoi precedenti.

La produzione successiva dei Trapeze è contraddittoria e meno interessante, il gruppo inoltre perse definitivamente la sua identità. Ma i tre album che ho citato sono indubbiamente degni di nuova considerazione da parte della comunità rock, che non può mancare di valorizzarli. Il gruppo, senza perdere di vista la sua vocazione di base, seppe offrire soluzioni e intuizioni innovative per l’epoca, con una formula che pochi altri hanno fatto propria. Parlare oggi dei Trapeze è significativo per aprire scenari e suggerire percorsi musicali che a distanza di quarant’anni sono stati poco sfruttati, significa indicare sviluppi che riescano a coniugare bene le necessità dell’impianto rock con influenze ben consonanti che diano nuove possibilità di interpretazione. Perché rock è libertà, quindi fantasia.


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