Pur essendo in fondo un dato di fatto valido nei più svariati ambiti e aspetti dell'umana esistenza, è innegabile quanto sia estremamente difficile, nel mondo del metal, riuscire a scollarsi di dosso un'etichetta: non si contano le storie di band mai riuscite, pur meritandolo, a liberarsi da inappropriate bollature e prevenute bocciature. Validissimo, tra tutte queste, l'esempio fornito dalla carriera dei norvegesi Tristania, i quali, pur avendo attraversato numerosi cambiamenti di line-up e stile (basti pensare alle molteplici facce del solo "Ashes") sono rimasti sempre assimilati all'immobile scena del female fronted gothic metal. Una scena, sì, resa gloriosa in tempi non sospetti dallo stesso collettivo scandinavo, ma diventata con il passare degli anni covo d'una quantità mostruosa di band abbarbicate sempre agli stessi triti e ritriti paradigmi, come centinaia d'anonime falene in svolazzo stazionario attorno a un fuoco da tempo in debito d'ossigeno.
"Darkest White", per la scrittura del quale è stata confermata in blocco (e la cosa non capitava da parecchio tempo) l'intera formazione, non è un disco di rottura come il predecessore "Rubicon", ma continua in maniera decisa a portare avanti l'opera d'irrobustimento e di progressiva semplificazione cui era stato dato il via tre anni fa. Scalpellate decise eliminano le poche residue pomposità e pacchianerie, mostrando al naturale, senza alcun filtro, un animo dannato e malinconico in parecchi frangenti, deliziosamente malvagio in altri. E', come lo stesso titolo del disco sembra suggerire, un gioco di contrasti e fragili equilibri, una continua danza tra luce ed ombra, in cui lo spirito dei Tristania adesso deflagra con violenza, sospinto dalle stilettate di un sound roccioso che si lascia trasportare con una facilità tutta nuova verso il riffone massiccio a metà tra l'hard rock e il metal estremo più groovy (indizi di Keep Of Kalessin' affiorano su "Himmelfall"), adesso si fa malinconico e sognante, avvolto e cullato dai sintetizzatori di Einar Moen. Stupisce anche il nuovo ruolo assunto dalle tastiere, che non dettano mai in modo invasivo le linee melodiche ma preferiscono ritagliarsi momenti di grande effetto nella loro brevità: cinematografiche e sacrali sottolineano i disperati ‘It's Time To Die' della cruda opener "Number", tese ed eteree costruiscono la distante atmosfera della ballata "Lavender".
Dal punto di vista vocale, lasciato senza troppi rimpianti ad altri act lo standardizzato binomio donzella gentile-growler crudele, i Tristania mischiano sensibilmente le carte in tavola, riuscendo nell'impresa non da tutti di far coabitare, con grande equilibrio, ben quattro voci (esordisce alle lead vocals, infatti, anche il bassista Ole Vistens, già sentito in precedenza alle backing). Sembra chiara l'intenzione del nuovo produttore Christer-André Cederberg (associato finora ad artisti dal sound decisamente più soft, dagli Anathema a Petter Carlsen) di non fare d'ogni ritornello un coro, mettendo in questo modo in vetrina le singole individualità: a giovarne è in particolare la voce dell'italianissima Mariangela Demurtas, la quale, libera dalle pasticciate sovraincisioni che ne avevano talvolta smorzato la potenza nel precedente full length, brilla finalmente per pienezza e versatilità, spaziando dai liquidi versi della mini-suite "Diagnosis" (cantata quasi nello stile di una Anneke Van Giersbergen dei tempi cupi) alle bordate di piena gola di "Night On Earth", per arrivare agli emozionanti crescendo vocali che, dal silenzio, conducono all'intenso ritornello della dolce "Requiem" (la cui cristallina purezza, a dire il vero, forse non avrebbe dovuto essere sporcata dai growl che compaiono in coda). Sempre una garanzia Kjetil Nordhus, capace di raggiungere picchi d'incredibile intensità (la teatrale "Cypher" o la più dinamica traccia conclusiva, "Arteries"), ancora un po' scolastiche e di certo non indimenticabili le harsh del chitarrista Anders Høyvik Hidle: la title track, il cui ritornello è a esse interamente affidato, risulta essere paradossalmente la traccia più debole e anonima dell'intera scaletta.
Tra una certa dispersività e (pochi) momenti leggermente fuori fase, rimane ancora qualche piccolo aspetto da limare perché la continua ricerca musicale dei Tristania si sublimi in un album assolutamente imprescindibile. "Darkest White" è comunque un lavoro di grande impatto, solido, formalmente impeccabile, e dalle sue note traspaiono una cura del dettaglio che ha del maniacale e un gusto per le melodie esemplare. Una gradita conferma e un ulteriore passo in avanti, in una strada che, a meno di imprevedibili inciampi, sembra proprio destinata a regalare soddisfazioni sempre più grandi.