Esistono diversi modi per convogliare la rabbia e l’ispirazione, scinderle insieme, controllarle, custodirle e finalmente scaricarle. Tali pratiche vengono esercitate da coloro che, forse, non hanno ancora l’autorità, il coraggio, o la convinzione per potersi presentare come artisti. E se a dire che “Il Primo Disco Era Meglio” sono gli stessi autori, valutare una prestazione già apparentemente screditante potrebbe rivelarsi un tuffo nella monotonia.
Invece la sorpresa dei Majakovich, svelata in undici pezzi distorti e duri, è la capacità di costruire sapientemente dei racconti basati su valori universali e su elementi del quotidiano che non possono essere descritti se non attraverso un urlo e un riff ben imbastito.
La fretta, la verità, la semplicità dell’esistenza, la paura – che poi è meraviglia – nello scontro con ciò che è estraneo, la decisione irrevocabile, e l’autocompiacimento dell’ultima impresa personale. È tutto così graniticamente vigoroso, demolente, scardinante, nel secondo disco dei Majakovich. La pecca, fuorviante, è solo una: il titolo è una grande bugia.