Il primo singolo “Here's To Never Growing Up” era una dichiarazione d’intenti chiara e cristallina: Avril Lavigne non ha la benché minima intenzione di crescere. Se lei è contenta così, siamo contenti tutti. O forse no. Anzi, no, decisamente non tutti siam contenti. Il problema principale degli due precedenti album, ergo dal 2007 ad oggi, è da individuarsi nell’insensata ricerca di baraonda pop negli arrangiamenti del 90% del materiale edito dalla bionda canadese. Persino nel precedente “Goodbye Lullaby”, che negli intenti e nelle parole degli slogan promozionali sarebbe dovuto essere un album più maturo ed intimista, l’accozzaglia di ritornelli da far urlare a squarciagola a stormi di quattordicenni e motivetti irritanti la facevano da padrone, e gli unici episodi che si salvavano, o quantomeno lambivano anche di sfuggita la tanto faticosa decenza, erano proprio le composizioni più semplici ed immediate, dove tolte chitarre elettriche, batterie elettroniche ed effetti ampollosi si scopriva un brano orecchiabile. Magari banale, magari non un’opera d’arte imprescindibile, ma quantomeno orecchiabile.
Dopo il cambio di etichetta, il ritorno dal manager che l’ha lanciata ed una conseguente pressione minore durante la lavorazione del disco, dopo una serenità ritrovata anche grazie al novello sposalizio con Chad Kroeger, sarà riuscita la nostra canadese preferita a trovare una strada quantomeno dignitosa da percorrere? No. Eppure...
Chiamare il quinto album col proprio nome è un po’ come voler comunicare che tutto ciò che è lì contenuto rispecchia in tutto e per tutto ciò che è l’artista in questo preciso periodo. Ascoltando “Avril Lavigne” si possono scorgere momenti gradevoli (i maligni potrebbero dire “sorprendentemente gradevoli”) che rispecchiano esattamente quanto detto poco sopra: testi magari non da premio Pulitzer, ma che tutto sommato non sono di certo osceni e tra le cui righe potrebbero immedesimarsi schiere di adolescenti, e soprattutto arrangiamenti semplici, orecchiabili (la conclusiva “Hush Hush”), magari prevedibili ( “Give You What You Like”, la delicata e pacata “I’m Falling Fast”), ma non irritanti. Sembra un discorso inutile, quasi una attenuante, un arrampicarsi sugli specchi, ma se avete l’accortezza di considerare una visione d’insieme degli ultimi 7 anni di lavori discografici di Avril Lavigne, tutto questo è grasso che cola. Peccato che in alcuni frangenti la bionda ex skater si perda un po’, mettendo qualche effetto di troppo in “You Ain’t Seen Nothing Yet”, o cadendo in alcuni arrangiamenti fin troppo zuccherosi nonostante un buon testo che, più di una che afferma di non voler crescere, è più di una persona che rimpiange il non poter tornare indietro (“17”).
Nel paragrafo precedente abbiam dato la spiegazione all’“eppure…” della risposta alla domanda “È riuscita a trovare una strada dignitosa?”. Ora, ahimé, ahinoi, ahivoi, tocca parlare di cosa proprio non va in questo self-titled album. Se con sovrumano sforzo possiamo anche dire che il singolo ““Here's To Never Growing Up” ha una sua ragion d’esistere, se non altro per l’azzeccata scelta di creare la strofa sulla melodia che volutamente richiama il primo successo di Avril “Complicated”, non altrettanto possiamo fare con l’opener “Rock N Roll”, impiastro sonoro utile al massimo per feste per tredicenni e che, senza il supporto del videoclip che distrae dall’ascolto, diventa invece insopportabile per chiunque altro, per non parlare poi del baby-dubstep di “Hello Kitty”, davvero uno dei punti d’irritabilità più alti dai tempi di “Girlfriend”.
Tra il pop rock canonico di “Hello Heartache” e la scialba “Sleepin’ On Sunshine”, nell’album sono presenti anche due collaborazioni che nel corso dei mesi precedenti hanno destato quantomeno curiosità, ovvero i brani scritti e cantati con il marito Chad Kroeger e l’amico Marilyn Manson. Nel primo caso parliamo di “Let Me Go”, tipica, solita ballata stile Nickelback malinconica e ricca d’archi quanto basta per non spiccare per nulla nella discografia di nessuno dei due; nel caso del Reverendo, la faccenda si tinge d’un velo tra il grottesco ed il ridicolo: prendete una canzone tipo di Manson, va bene anche “The Beautiful People”, datela in mano a qualche arrangiatore Disney, ed avrete “Bad Girl”, perfetta colonna sonora di “iCarly” se fosse stata una serie pretenziosamente rock.
Dopo quest’ultima parte di recensione dilaniante, il voto in calce potrebbe sembrare fin troppo generoso, ma tornando alla domanda già proposta più volte, ovvero se questa volta Avril Lavigne abbia finalmente trovato una strada musicale decente, la risposta è no, ma qualcosa di non completamente deplorevole c’è, in quantità superiore pur non strabordante rispetto al precedente “Goodbye Lullaby”, dove troppe erano le occasioni in cui si sarebbe chiesta, implorata l’asportazione dell’apparato uditivo in toto.
Avril rimane ancorata al suo voler rimanere adolescente sempre e comunque. Pazienza, facciamocene una ragione, e questa volta riteniamoci fortunati che i momenti irritanti sono stati perlomeno arginati un po’ meglio rispetto al passato.