La Svezia, oltre ad essere nota per le bionde, Ibrahimovic e il consistente tasso di suicidi (non è un caso che gli At The Gates abbiano intitolato un loro pezzo proprio “Suicide Nation”), a livello musicale viene ricordata soprattutto per la floridissima scena melodic death metal (di cui guarda caso gli stessi At The Gates sono tra i portabandiera) che ha dominato la musica pesante negli anni ’90 e che continua a riverberarsi nel nuovo millennio. Forse non tutti sanno però che il paese scandinavo è (stato?) il teatro di un movimento post-hardcore-punk di tutto rispetto, di quelli in grado di lasciare un solco nella musica a venire. Il merito principale va senz’altro assegnato alla Burning Heart, etichetta di Örebro specializzata nella promozione di talenti come i Refused di “The Shape of Punk to Come”, lavoro che chiunque si professi amante di un certo tipo di sonorità non solo dovrebbe conoscere a memoria, ma anche diffondere come un dogma religioso. Tutto questo preambolo non ci ha però ancora portato al dunque della recensione, che vuole invece approfondire un disco di un altro gruppo, sempre nella scuderia Burning Heart; un gruppo che purtroppo non ha mai avuto l’attenzione che meritava, come troppo spesso succede nel mondo musicale “dell’U.S.A. e getta”.
Sto parlando dei Breach, quintetto svedese (ma guarda!) dedito ad un hardcore di stampo vagamente punk, levigato però da numerosi passaggi in quell’universo un po’ sfumato definibile come “post“, e in particolare del disco che sublima la loro opera, il canto del cigno della band, “Kollapse”. Uscito nel 2001, l’ultimo studio album dei Breach si presenta con una copertina minimale, un piccolo aereo bianco su sfondo grigio, ed attacca a livello sonoro con un giro di percussioni accompagnato da feedback di chitarre. E’ un’accoglienza piuttosto strana, per un gruppo classificato come post-hardcore, ma da sola riesce a dare l’idea che quel che si prospetta non è tanto un ascolto, piuttosto un viaggio molto particolare dentro diverse atmosfere musicali. Già, perché la seconda traccia cambia radicalmente volto, rientrando nei canoni più violenti del genere e soprattutto nascondendo i semi di quel sound che, complici anche i Neurosis, spopolerà qualche anno più tardi sotto il nome di post-metal. Si entra così in una sorta di ottovolante, a cavallo tra derive post-rock composte da atmosfere dilatate, singole note di chitarra pulita, leggeri colpi sui tamburi, e sfuriate hardcore che a tratti ricordano sonorità punk-rock (ascoltare “Lost Crew” per credere). L’abilità dei Breach quindi è quella di affrontare senza problemi diversi momenti musicali, trovandosi però a proprio agio in tutte le situazioni e non sono molti i gruppi capaci di tanta versatilità ma allo stesso tempo di mantenere un filo conduttore preciso.
Nell’andirivieni di violenza e melodia (parola da prendere con le pinze, ma che a parere di chi scrive può spiegare il senso di tracce quali “Sphincter Ani” e la bellissima “Seven”), l’ascoltatore può restare vagamente spaesato, ma forse è proprio questo l’obiettivo dei cinque svedesi, quello di sorprendere in continuazione. In fondo l’hardcore di questo tipo ha la tendenza a creare una sorta di malessere, di arrivare diretto allo stomaco nelle parti più vitali ma anche di sfiancare lentamente con i momenti (diciamo così) rilassati. Durante il percorso quindi, sembra quasi di trovarsi a bordo del velivolo in copertina, in mezzo a fasi di turbolenza e zone di calma, tra sfuriate che ci fanno dire “adesso precipita” e scorci post-rock che fanno tornare il sereno (seppure sappia di quiete prima della tempesta). Poi, giunti alla fine del viaggio, arriva quel giro di glockenspiel quasi a prenderci in giro, per riportarci in salvo sulla terra ferma…o a quel punto siamo già morti?
Breach
Kollapse
2001, Burning Heart Records
Hardcore
01. Big Strong Boss
02. Old Ass Player
03. Sphincter Ani
04. Alarma
05. Lost Crew
06. Teeth Out
07. Breathing Dust
08. Mr. Marshall
09. Seven
10. Murder Kings And Killer Queens
11. Kollapse