Due anni di lavoro. Due anni di composizione, rifiniture ed aggiunte. Due anni durante i quali Avril Lavigne ha pensato di dare una svolta allo stile che tanto successo commerciale ha portato al precedente “The Best Damn Thing”. Dopo rinvii, annunci e smentite, ecco finalmente tra le nostre mani “Goodbye Lullaby”, il nuovo album della bionda canadese.
Ad esser onesti, nutrivo una gran curiosità per questo disco: nella mia mente era ancora presente “Alice”, canzone scritta per la colonna sonora dell'omonimo film di Tim Burton, in vero abbastanza distante da quello che l'artista aveva sino ad allora proposto, presumibilmente foriera di un cambiamento di non poco conto nello stile e di un allargamento, perché no, del target verso cui rivolgersi. Poi, però, a gennaio è uscito il singolo anticipatore dell'album, “What The Hell”, caratterizzato da un andamento molto vivace e molto, troppo scanzonato: sarebbe stata una discreta outtake nei primi due album, ma sentire un brano del genere scritto da una ventiseienne ha lasciato il sottoscritto perplesso. Avril vuole mostrare la sua maturazione artistica ed umana, oppure continuare ad alimentare l'immagine di ragazzina difficile e ribelle? L'ascolto di “Goodbye Lullaby” non dà risposte molto chiare.
Tutta la prima parte dell'album è estremamente esile: “Push” è la tipica ballad cui l'artista ci ha abituato, orecchiabile ma priva di elementi particolari, pur avendo il pregio di non essere irritante quanto la precedente “What The Hell”, mentre “Smile” ha una strofa che dovrebbe esser accattivante e coinvolgente, ma in realtà risulta solo fastidiosa, a dispetto di un ritornello dalle atmosfere molto più ampie e radio-friendly (non sorprenderebbe trovarla in rotazione in radio come secondo singolo). Gli unici episodi decenti e meritevoli di considerazione sono paradossalmente i brani meno elaborati, ovvero “Everybody Hurts” e in buona parte “Stop Standing Here” e “Wish Where Here”, mentre “Not Enough” risulta un po' troppo ripetitiva e, soprattutto, ha un finale eccessivamente enfatico (negli ultimi tempi questa soluzione è stata abusata da molti gruppi e cantanti). Procedendo con l'ascolto, ci si accorge che la seconda parte del disco è molto più ponderata, meglio concepita, si incontra finalmente quella voglia di cambiamento di cui si parlava ad inizio recensione. La sezione ritmica è generalmente meno ampollosa, chitarre acustiche, pianoforte ed archi hanno molto più spazio, le canzoni sono più lente e pacate, e fa un certo effetto notare come due degli episodi migliori, “Darlin” e “Remember When”, siano stati scritti ad inizio carriera e ripresi solamente ora. La situazione, in questi casi, è qualitativamente migliore, anche se i pochi brani dignitosi non sono comunque perfetti - complici una certa ripetitività negli arrangiamenti e i testi un po' banali (“4 Real”) - e da soli non riescono a risollevare le sorti di “Goodbye Lullaby”.
Per questa recensione è stata presa in esame l'edizione deluxe dell'album, in cui è presente materiale aggiuntivo, ma la situazione creatasi è alquanto paradossale in un certo senso. Oltre ad una cover di “Bad Reputation” di Joan Jett (buona ed energica, ma un po' più di determinazione nel cantato non avrebbe guastato), sono state incluse le versioni acustiche di “What The Hell” (a confermare una canzone pessima già in partenza), “Push” (è stata semplicemente eliminata la traccia della batteria, ma a parte ciò è identica alla versione originale), e “Wish Where Here”, l'unica che guadagna realmente in atmosfera e che dimostra di essere stata concepita davvero bene, al contrario di “What The Hell”. A proposito del pluricitato singolo (troviamo, tra l'altro, il videoclip ufficiale, dove ogni occasione è buona per pubblicizzare profumo ed abbigliamento firmati dalla stessa Avril), esso è altresì presente in una versione remix davvero agghiacciante, almeno quanto la versione hip hop di “Girlfriend” pubblicata qualche anno addietro. Il making of di “Goodbye Lullaby” (sicuramente verrà apprezzato dai fan) conclude la proposta offerta da questa versione speciale dell'album. Come accennato, la situazione in questo caso è paradossale: versioni unplugged che, fatta eccezione per “Wish Where Here”, non aggiungono nulla dato che non sono nemmeno tratti da provini acustici, ma sembrano più una presa in giro (eliminare una chitarra elettrica e la batteria e far rimanere le track originali dove si notano ancora più chiaramente i ritocchi apportati alla voce nei cori non ha senso). Infine inserire una versione dance di una canzone è addirittura controproducente.
Forse gli eccessivi rinvii, la volontà di introdurre nuovi elementi che purtroppo cozzano con l'incapacità di apportare sostanziali modifiche ai (troppi) brani più esili rendono “Goodbye Lullaby” un album davvero trascurabile, e questo è uno dei rari casi in cui la versione deluxe non aggiunge nulla di buono, ma riesce addirittura a peggiorare la situazione.