La soffusa melodia pianistica di "Musa" scorta l'ascoltatore attraverso i suoli pietrosi e selvaggi di Itaca e della Colchide, mentre i synth pregni di salsedine e luce accecante accompagnano le sirene nel loro dolce richiamo: la reiterazione dilatata del verso "Dimmi, o Musa, di quell'uomo che viaggiò per mari, di quell'uomo che si perse in mare..." ammalia a guisa di carme olimpico. Se il neotestamentario abbandono in retrowave di "Lama Sabactani" si vela di corali di facies gregoriana, la coppia "Sanctus" e "Castrum Vanitas" si sposta in zone decisamente marziali, con la Kant abile nell'utilizzare primitivismo polifonico e aruspici sonagli sciamanici prima di partire in direzione di imprecisate progetti bellici. L'orazione mantrica "Kyrie Eleison" sfuma in un dream pop arcano che contagia il successivo "Sanctus", pezzo tuttavia arricchito da una maggiore vena sinfonica e tribale; il suggerimento spirituale "Creditis in deo..." ripetuto al pari di una formula liturgica tratteggia il trip hop di "Sion", mentre il caratteristico Bristol sound degli anni '90 impiegato in "Ego Tantum" tinge di lieve cupezza onirica il timbro cristalliforme della singer. Chiude "Nemesis", una sorta di compendio delle varie influenze presenti sul disco, elargito in sei minuti di sussurri in crescendo che associano melodia, sperimentazione e gherigli mistici.
Con "Trinus" Lisa Kant, di volta in volta dea, guerriera e sciamana, frantuma le barriere della storia, facendo propria la concezione secondo la quale la temporalità non è un assoluto collocato fuori di ogni coscienza, bensì un carattere appartenente all'ente individuale e collettivo. Un'opera dunque capace di opporre l'imperitura sostanza delle idee alla durata mortale del mondo sensibile, in una dialettica che vede mythos e logos conservare un fecondo equilibrio sulle note di uno spartito argonautico: alla ricerca di un vello d'oro dai nuovi significati sonici.