Tom Odell
Long Way Down

2013, Columbia
Pop

Recensione di Riccardo Coppola - Pubblicata in data: 28/12/13

Che la critica albionica non ce la faccia più, in fondo, è pure comprensibile: con la stessa frequenza con cui qui da noi si moltiplicano gli emuli di Emis Killa, dalle loro parti esplodono carriere di faccini puliti inventatisi songwriter, che s'avvicendano settimana dopo settimana sulle prime pagine dei rotocalchi e ai primi posti delle classifiche. "Vengono fuori dalle fottute pareti!" diceva qualcuno in un epocale film - pur riferendosi a qualcosa di leggermente diverso -, "zero su dieci" disse in una sua recensione un altrettanto preoccupato NME, che timoroso dell'esplosione dell'ennesimo caso bollava come la peggiore delle catastrofi possibili e immaginabili l'esordio del povero Tom Odell.


Ma facciamo un passo indietro, spiegando da dove salta fuori il biondo figuro dalla faccia ingenuissima e dall'abbigliamento demodè che compare, con alle spalle un vialone sfocato che tanto fa brit-pop, sulla copertina di questo "Long Way Down". Tirato fuori un trittico di hit dall'EP "Songs From Another Love", Odell viene lanciato da Jools Holland all'inizio di quest'anno, vincendo il prestigioso BRITs Critics' Choice Award; breve poi il passo che l'ha portato alla scrittura di altri sette pezzi, per la pubblicazione del primo LP d'inediti. Quelli del buon Tom sono pezzi pregni d'un acerbo romanticismo, ammiccanti ai cliché del songwriting britannico senza diventarne futili e appassite copie; brani che sanno anche farsi scoppiettanti ed energici, dribblando l'insidiosa tendenza a piangersi addosso di tanti coetanei, fin troppo propensi ad annegare le proprie melodie in oceani di malinconia.


Odell ha una voce che non manca d'incisività, che sa strozzarsi in amare consapevolezze (l'impossibilità di cancellare le cicatrici di un amore finito, nella toccante "Another Love", l'ammissione delle proprie debolezze e fragilità nell'ancor più intima "Sense"), ma sa anche farsi più piena fin quasi a strillare, talvolta anche in balzellanti pop-songs dall'allegra predisposizione al coretto (il singolo "Hold Me", che riesce a far agitare le teste pur essendo invero leggermente stucchevole, o la risoluta "Can't Pretend", animata pure da un soul un po' più crudo). Protagonista d'un comparto strumentale per il resto canonicissimo sarà poi il piano, che l'artista utilizza con trasporto ed efficacia per assecondare gli enfatici crescendo delle sue emozioni, passando agilmente dall'accarezzarne mollemente i tasti d'avorio al picchiarli come un fabbro.


Sul finire, purtroppo, i deja-vu affiorano in quantità, e brani come l'inoffensiva title track o la conclusiva "Sirens" attuano un tale riciclaggio d'idee da sembrare clamorosi auto-plagi. Non riusciamo però a rimanere indifferenti alla spontaneità e al modo - talvolta maldestro, talvolta delizioso - con cui Odell tinge di giovanile esuberanza (parliamo sempre di un classe '90) l'educata tradizione di piano-pop. E in fondo, nel suo minutaggio di una mezzoretta o poco più, "Long Way Down" non lascia il tempo d'annoiarsi, rivelandosi un bocconcino tutt'altro che indigesto.





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