Steven Wilson
To The Bone

2017, Caroline Distribution
Art Rock

Il genio britannico a confronto con se stesso e le sue ispirazioni più proibite: passato, presente e futuro di Steven Wilson.
Recensione di Federico Barusolo - Pubblicata in data: 17/08/17

Progressive pop.


Un'espressione strana, quasi ossimorica, capace di far storcere il naso a qualunque purista del prog, eppure perfetta per descrivere il "nuovo" capitolo della carriera di un artista che, come pochi altri, è stato negli anni elevato alla stregua della massima icona di questo genere. Difficile è infatti, per chi si nutre di soli tempi dispari, accettare il fatto che "To The Bone" abbia ben poco a che spartire con i precedenti capolavori firmati Steven Wilson (leggi qui la nostra ultima intervista), bensì strizzi l'occhio a quelle influenze pop che, nonostante siano sempre e comunque state presenti nello stile del genio britannico, vengono per la prima volta messe al centro della scena, facendo di questo album uno dei più controversi dell'anno.


Artisti come Peter Gabriel, David Bowie e Kate Bush sono i perfetti esempi di quell'Art Rock, in equilibrio tra generi così drasticamente contrapposti, ai quali si fa esplicito riferimento, ma il punto focale di "To The Bone" è senz'altro quello che lo rende un inno alla propria libera espressione; un lavoro che attesta la totale presa di responsabilità dell'autore nei confronti di una scelta che esalta i propri gusti e le proprie capacità. Non per nulla Steven Wilson ha deciso, per la prima volta dopo un lungo periodo, di privarsi in studio del talento di due nomi come Guthrie Govan e Marco Minnemann, per poter mettere la propria impronta su quanto più possibile del disco.


E se, da un lato, Steven si dimostra sereno a tal punto da metterci la faccia (praticamente mai era capitato di trovarsela così, in primo piano sull'artwork), dall'altro ha comunque scelto la via della prudenza, nell'"abituare" il proprio difficile audience un boccone per volta. Ben cinque, infatti, sono gli assaggi che hanno anticipato la pubblicazione ufficiale, ciascuno dei quali caratterizzato da sapori diversi e contrasti forti.


Sebbene il primo singolo, "Pariah", abbia da subito remato in una direzione pop, nascendo come un più o meno velato tributo alla leggendaria "Purple Rain" e lasciando spazio alla solita, straordinaria interpretazione vocale di Ninet Tayeb, questo brano non si distanzia troppo da altre parentesi tendenti al pop della carriera solista di Steven Wilson (per esempio, "Happy Returns" di "Hand.Cannot.Erase."). Tutt'altro discorso invece per quanto riguarda "Permanating", qualcosa di totalmente nuovo nell'universo wilsoniano e che difficilmente riesce a trovare una spiegazione, se non nel leggero inchino a Bowie percepibile in un ritornello altresì fortemente devoto agli ABBA. "The Same Asylum" arriva poi a portare un po' di nostalgico sapore di Porcupine Tree dei tempi di "Deadwing", mentre "Song Of I", tra i leggeri accenni ai Nine Inch Nails, rappresenta quell'interessante direzione elettronica di stampo minimal che non sembrerà nuova a chi già avesse avuto modo di ascoltare l'ultimo album di Wilson con il suo side-project Blackfield e si fosse imbattuto in "Lonely Soul".


Da un punto di vista tematico, il disco è come al solito avvolto in un alone sinistro in ogni sua parte (persino nell'allegra "Permanating"), anche se in questo caso l'attenzione è principalmente rivolta verso il mondo esterno, non più verso quello interiore esplorato più e più volte nei precedenti lavori solisti. Come spiega ai nostri microfoni, Steven Wilson si serve di "Pariah" come ponte tra il concept di "Hand.Cannot.Erase." e le tematiche squisitamente attuali che troviamo nei pezzi di "To The Bone". Si fa, così, riferimento alla condizione di chi è costretto ad abbandonare la propria terra per sperare in un futuro tutt'altro che certo ("Refuge"), alla religione come "giustificazione" alla violenza insensata ("Detonation"), che ci circonda nella nostra vita di tutti i giorni ("People Who Eat Darkness").


Può sembrare davvero molto difficile, in conclusione, dare a "To The Bone" un giudizio totalmente obiettivo e slegato dal background del suo ideatore. Se ogni tentativo di confronto con i due precedenti capolavori perde assolutamente di senso e non rende giustizia alle intenzioni del disco, è naturale un certo senso di disorientamento di fronte ad una direzione totalmente nuova. Una direzione in cui Steven Wilson è pienamente libero di mettere mano a quasi tutti gli strumenti in modo impeccabile e di uscire da quegli schemi particolarmente stretti ad un'individualità geniale e visionaria come la sua. E se, magari, stavolta il risultato non è un capolavoro assoluto, stiamo comunque parlando di un ottimo album, molto più incentrato sulle strutture melodiche e sull'arte del songwriting. Ciò che si chiede agli inflessibili paladini del tempo dispari è, dunque, il piccolo sforzo di godersi un lavoro, sì, molto più diretto ed orecchiabile, ma comunque incredibilmente ricco, nel quale trovano posto tutti i tasselli del grande mosaico della musica secondo uno dei più grandi ed iconici artisti in attività.





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