Soundgarden
Badmotorfinger

1991, A&M Records
Grunge

Recensione di Riccardo Coppola - Pubblicata in data: 17/05/14

"Louder Than Love": l'avevano sparata grossa i Soundgarden per il titolo del loro precedente album, etichettando in tal modo il loro massiccio melting pot di primordiale grunge (in fondo si trattava ancora degli ultimi anni '80, ed il movimento era ancora tutt'altro che ben delineato), ruvido punk e financo qualche pizzico di laccato e ironico glam, appesantendo il tutto con un mood doomy and gloomy da giovanissimi eredi dei Black Sabbath.

 

E "Louder than 'Louder Than Love'" è quel che ci verrebbe da dire per la successiva uscita, quel "Badmotorfinger" che terremotò la Seattle musicale agli albori dei Novanta. Un disco incredibilmente granitico, tagliente, incazzato, che fa però sparire gli acerbi e incontrollati moti di ribellione dei precedenti lavori, la loro poliedricità che in fondo puzzava anora un po' di confusione. Tra le partiture dei brani in apertura, tra il delirante schiacciasassi sonoro dell'inarrestabile "Rusty Cage" (pedali wah wah usati come filtri, seste corde tanto ribassate da diventare molli e traballanti) e il fiammeggiante hard rock di "Outshined", si nota infatti come la sempre presente violenza sia adesso più ragionata, meglio governata, incasellata in schemi studiati nel minimo dettaglio. Si apre così una sequela di cazzotti lanciati da qualcuno che non mena più le mani a caso ma sa esattamente dove colpire, un muro sonoro apparentemente interminabile, soffocante ma proprio per questo inebriante e irresistibile, che prosegue tra le maglie strettissime dell'infervorata "Jesus Christ Pose", dei suoi diabolici giri di chitarra e dei suoi interminabili scream, o piuttosto lungo i passi arrancanti della funerea "Slaves & Bulldozzers".

 

Una crescita esponenziale, quella dei quattro (anche grazie all'arrivo di Ben Shepherd a completare i buchi in formazione lasciati dalle dipartite di Hiro Yamamoto prima e di Jason Everman poi, aggiunta che col tempo si rivelerà di grande importanza in sede di songwriting): resta qualche cambio di tempo sconsiderato, questo sì, ma nel complesso sull'ormai defunta anarchia regna un nuovo ordine, impreziosito qua e là da nuove, impreviste aggiunte. La chitarra di Thayil regala così distesi assaggi di psichedelia (la lunga coda e il sorprendente stop'n'go di "Somewhere", le circonvoluzioni orientaleggianti sulla seconda metà di "Face Pollution") così come plumbei riffoni metallici (il più pesante forse su "Room A Thousand Years Wide", accompagnato da una roca, sofferente, struggente prestazione al microfono di Cornell e da un inedito sax sul finale). Sul fronte lyrics, i versi di Cornell camminano sempre in bilico tra concretezza e pura follia, spargendo qualche seme di denuncia sociale in mezzo a sanguinarie allucinazioni: anatemi feroci ora contro il fanatismo religioso e l'abuso dell'associazione alla figura di Cristo (l'incisivo "It's the big lies that are more likely to be believed" di "Holy Water", o soprattutto l'insofferenza della già citata "Jesus Christ Pose"), ora contro l'orientamento destrorso del governo americano (il complottismo catastrofico di "New Damage" e delle sue strofe inneggianti al new world order).

 

Saranno proprio i fischi e le malvagie urla di "New Damage" a chiudere "Badmotorfinger", quasi sessanta minuti in cui i Soundgarden tremendamente vicini al loro assoluto apice creativo (che comunque non si farà attendere ancora per molto). Un capolavoro d'ugole martoriate, batterie percosse senza pietà alcuna, lugubri linee di basso e sibilanti chitarre. Non un'ode alla musicale ignoranza però, per lo meno non del tutto: e lo si capirà dedicando il giusto tempo a "Mind Riot", toccante e angosciata power ballad, rosa in un deserto di cinica desolazione, testimonianza che anche in uno dei dischi più cattivi di tutti gli anni Novanta possa esserci spazio per un tocco di colore, per una breve e meravigliosa poesia maledetta.





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