Photo credits: John McMurtrie
Due amici, uno studio di registrazione a Turks e Caicos, nel Mar dei Caraibi, e qualche compagno d'avventura. Sembra la trama di un film di Boots Riley, uno di quelli comici ma dal risvolto inaspettato, in realtà stiamo parlando del duo Adrian Smith (Iron Maiden) e Richie Kotzen (Winery Dog, ex Mr. Big ed ex Poison), due guitar hero che non hanno bisogno di presentazioni. Se l'accoppiata inizialmente può sembrare un abbinamento insolito, questo album, intitolato appunto "Smith/Kotzen", racconta una storia diversa. Da vicini di casa in California, la decisione della coppia di fare musica insieme è fluita naturalmente dopo aver stretto un'amicizia documentata sui social network e cementata da una sintonia musicale più che preziosa.
Il punto di contatto si può trovare nell'amore per il classic rock anni '70, con una bella manciata di blues e un pizzico di southern rock, un'attestazione lampante fin dall'incipit con "Taking My Chances" e ribadita nella prorompente "Running", due pezzi dal taglio radiofonico che riportano echi di Chris Cornell nelle linee vocali cantate da Kotzen e che settano l'intero plot ad un livello altissimo, mantenuto costante per tutto il disco. E sembra forse superfluo asserire che la chitarra fa da padrona in queste nove tracce, ma il modo in cui i Nostri dialogano attraverso le sei corde va al di là della tecnica (invidiabile) e si fa sintonia, una reciprocità rintracciabile nella scrittura dei pezzi, nelle parti di basso e nella produzione del disco sulle quali è apposta la duplice firma. Ma il duo non è da solo in questa impresa: ad intervenire dietro le pelli troviamo un formidabile Nicko McBrain in "Solar Fire", anche lui direttamente dagli Iron Maiden insieme a Smith e a guidare il tempo su "You Don't Know Me", "I Wanna Stay" e "‘Til Tomorrow" un ispiratissimo Tal Bergman.
Dove "Running" suona già come instant classic, in "Scars" emerge la comune attitudine blues in cui non solo le chitarre elettriche (stavolta insieme alle acustiche) ma anche le voci si supportano brillantemente su di un ritornello degno dei migliori eroi del grunge, rispettando una struttura piuttosto ricorrente: tre quarti della durata è affidata allo sviluppo della canzone con una deflagrazione finale affidata ai solisti. E se da una parte "Some People" ricalca più gli standard blues, "Glory Road" è il pezzo più classico del lotto reso sicuramente interessante da alcuni assoli che fanno scuola. Sembra ormai chiaro che "Smith/Kotzen" è un album pensato per gli amanti della sei corde e di un mondo che sembra sopravvivere solo fra le nicchie di appassionati, ma portato alla luce con la maestria senza limiti di due spensierati professionisti. Prendiamo anche in considerazione il fatto che fare un disco vintage/revival esclude una fetta considerevole di pubblico e di sperimentazione artistica. Partendo da questo assunto, il rischio di scimmiottare, o peggio, sfoggiare virtuosismi inconsistenti e tediosi, è stato brillantemente scansato da un songwriting a metà tra istinto e ponderazione, tra spontaneità ed esperienza. E quando verrebbe da chiedere di più dal duo Smith/Kotzen, magari ascoltarli cimentarsi in terreni heavy metal più congeniali al chitarrista britannico, ogni aspettativa viene spazzata via da "'Til Tomorrow", con le sue schitarrate scure, echeggianti, e una sezione solistica magnificamente deflagrante, che lascia aperta una fenditura verso future sperimentazioni e, al contempo, chiude brillantemente questo primo capitolo che porta il nome della band. Un marchio indelebile di una presa di coscienza chiaramente declamata: quella di voler fare musica a modo proprio.
L'esordio del supergruppo è certamente il frutto di un'esperienza nuova, la ricerca di un'ispirazione che prende forma nel momento stesso in cui inizia, l'evoluzione di una jam session che ha il sapore della serendipity, della scoperta inaspettata e dell'equilibrio perfetto tra due propulsori musicali, due macchine macina note al servizio dell'efficacia comunicativa... e del loro stesso diletto. Ecco quindi che "Smith/Kotzen" diventa la dimostrazione che non si può far divertire se non ci si diverte per primi.