Il problema del tornare sulle scene dopo 20 anni di inattività è la marea sconfinata di aspettative che devi dimostrare di saper soddisfare. Specialmente se sei una band che ha contribuito in modo fondamentale a definire un genere ed una scena musicale. Specialmente se abbandoni il palcoscenico con un disco astruso e sperimentale che lascia, nelle memorie dell’ascoltatore, più domande che risposte. Specialmente se la tua legacy non scompare col tempo ma, forte di due capolavori immortali della musica in discografia, pare per contro crescere e rinnovarsi col passare delle generazioni.
Cominciamo quindi col dire che gli Slowdive affrontano tutto questo nel migliore dei modi, a partire dal proporsi di nuovo con il tipico basso profilo, scarno di qualsiasi orpello. In fondo, il quarto parto in discografia non ha neppure un titolo, e non presenta all’interno della confezione nulla che non sia il disco ed i dovuti credits. Senza fare la voce grossa, dunque, non cadono nella trappola della facile nostalgia, e propongono un’opera diversa da tutto quanto fatto nel loro (ingombrante) passato, prendendo le distanze da quello sperimentalismo che aveva fatto conoscere a “Pygmalion” sorti controverse, ma anche da quel lancinante liquido amniotico che li ha resi immortali su “Souvlaki”.
Sin da “Slomo”, difatti, capiamo che sì, le distorsioni di chitarre sono ancora presenti, gli infiniti arpeggi e riverberi a creare questa bruma sonora tanto fredda quanto immensamente confortevole; tuttavia, i colori oggi sono diversi. C’è un senso di conforto dato da una sezione ritmica mai così protagonista della musica del quintetto inglese, tanto da proporre brani addirittura gioiosi che i fan oltranzisti non faticheranno per nulla a definire, semplicemente, “eretici”. Stupidamente forse, perché basta sentire come la chitarra diviene immediatamente protagonista sul ritornello mancato di “Don’t Know Why”, o come la voragine si spalanchi comunque oscura sotto la zuccherosa melodia che anima “No Longer Making Time” per capire che gli Slowdive sono ancora pienamente in controllo della loro arte. E se proprio di desolante catarsi si va alla ricerca nel disco, le orecchie sono destinate a rimanere tutto meno che scontente, con una parte finale dispersa tra sperimentalismi lisergici ambientali (“Go Get It”) e corrosivi umori post rock (“Falling Ashes”), lo stesso acidulo che muove l’alternative rock inglese propriamente detto di “Star Roving”.
Ecco dunque che con autentiche sorprese in scaletta quale il country morbido ottantiano, dal tono tanto dolce quanto desolante, di “Sugar For The Pill”, “Slowdive” è disco che, nella somma delle composizioni che lo animano, risulta una perfetta sintesi evoluzionista di una band iconografica. Perché gli elementi che ci hanno portato a far amare gli Slowdive sono ancora tutti presenti: le voci indistinguibili di Rachel e Neil, le chitarre in perenne delay, le liriche così imperniate su cose concrete e quotidiane, ma su una musica spesso inafferrabile ed impalpabile. Accanto a questi capisaldi, ecco anche una maggiore sensibilità moderna nel definire la struttura della canzone, dei suoi tempi e dei suoi ritmi: una consapevolezza maturata tanto nei Mojave 3, che nei Minor Victories, ottime palestre per le due menti principali della band che han consentito loro di arricchire il vocabolario, senza stravolgerlo.
E se una colpa dobbiamo proprio muovere agli Slowdive, è quella unicamente di essere cresciuti lontano dai nostri occhi. Ma potete fidarvi: quanto testimonia questo disco è che sono invecchiati decisamente bene.
Il migliore ritorno che ci si poteva augurare dunque, perché non vediamo l’ora di sentire cosa avranno in futuro da dire questi 50enni che non dimostrano però, alle nostre orecchie, più di 30 anni.