Tra il 1999 e gli inizi del XXI secolo, la quasi totalità della scena nera norvegese canalizzò le ansie del nuovo millennio in un black metal meticcio, sporco, adulto: l'abbandono delle forme più ingenue e retrive di satanismo condusse alla realizzazione di album all'epoca mal digeriti o, comunque, poco apprezzati dai fan della prima ora. Basti pensare ai Mayhem di "Grand Declaration Of War", alla ridefinizione dell'estremo operata dai Dødheimsgard in "666 International", alle sperimentazioni avanguardiste di Emperor e Ulver, alla sorprendente wrong turn dei Gehenna: esperienze segnate da un'inevitabile pioggia di critiche. Nell'elenco non potevano mancare i Satyricon, artefici, vent'anni fa, di un "Rebel Extravaganza" fuori dagli schemi consueti e rimasterizzato, in occasione del genetliaco, da Napalm Records.
Reduci dagli sfarzi di "Nemesis Divina" (1996), i nostri compresero che il tempo delle celebrazioni scioviniste fosse ormai finito, che le angosce della modernità dovessero spogliarsi dell'illusione di vivere eternamente segregate nel gelo scandinavo o in castelli medievali. Il genere medesimo, che la coppia aveva contribuito a forgiare, stava attraversando un periodo di stagnazione creativa e compromessi commerciali. Bisognava, dunque, scalfire la presunta purezza della fiamma oscura con i liquami del nichilismo meno fasullo, precipitare nelle cloache dell'estraniamento, assorbire il vero Male dallo sgretolio progressivo dell'individualità. Il corpse paint sparisce: la metamorfosi del duo, fisica e concettuale, è completa.
Il songwriting asettico costruito da Satyr, i pattern schizoidi e meccanici della batteria di Frost, un lavoro produttivo di matrice post industrial, effetti e filtri per voce e strumenti: tanta carne al fuoco governata con sapienza e spregio della gogna pubblica. In un intreccio di dissonanze, ritmi spigolosi e metriche irregolari, si dipanano cateratte di riff seriali ("Tied In Bronzed Chains", "Filthgrinder"), balenii di psico-dance suburbana ("Havoc Culture"), antichi e malsani riflessi destrutturati e ricomposti ("Prime Evil Renaissance", "A Moment Of Clarity"), scorie nucleari non ancora smaltite ("Supersonic Journey"). E se i tre brevi interludi del disco ("Rhapsody In Filth", "End Of Journey", "Down South, Up North") sembrano riprodurre l'eco dei rumori di una vecchia fabbrica in disuso, la finale "Scorn Torment", con i suoi stridenti cori femminili, veicola alienazione e collera ipnotica.
Ostico, premonitore, terrificante: "Rebel Extravaganza" scava, oggi come allora, nel fango metropolitano senza alcuna censura. Misantropia autentica, di cui gli stessi Satyricon pagheranno le conseguenze: perché trascorrere anche una sola stagione all'Inferno lascia, sulla pelle, cicatrici indelebili.