Manowar
The Triumph Of Steel

1992, Atlantic Records
Heavy Metal

Recensione di Federico Mainardi - Pubblicata in data: 20/11/13

Pochi dischi più di questo incarnano il significato della parola “ambivalenza”: non è possibile negare che "The Triumph Of Steel" sia uno dei vertici compositivi raggiunti dal quartetto newyorkese; è altrettanto evidente che esso rappresenta lo sviluppo estremo dello stile dei Manowar, la cui radicalità è ormai proverbiale e certo non lo preserva dalle critiche. "The Triumph Of Steel" è infatti il loro lavoro meno immediato, il più pretenzioso, perfino il più snervante in considerazione delle lunghe tirate strumentali, con cui i Nostri cercano di spingere al limite le proprie risorse espressive. Per gli stessi motivi è anche il più complesso ed il più sentito (o sofferto). È pure il disco con le maggiori velleità di grandezza, forte di un’epicità portata al suo grado massimo, ma anche più precario: quello, cioè, in cui l’afflato guerriero cresce e si estenua in un pathos sfibrante che, proprio un attimo prima di svanire assorbito dalla noia della prolissità, erompe negli sfoghi più brutali che i Manowar abbiano mai composto. È il caso della lunghissima opener “Achilles: Agony And Ecstasy In Eight Parts”: 28 minuti di cambi di ritmo e di sfuriate messe a segno, ma anche di lungaggini strumentali, a metà tra l’esibizione virtuosistica (da incorniciare il drumming della meteora Kenny Earl) e la drammaticità un po’ stinta delle colonne sonore.

 

È paradossale, paradossale come i Manowar stessi, che l’eccesso stilistico si riveli il mezzo più appropriato per dar voce al loro spirito espressivo e al loro immaginario. Ogni gruppo crea il suo immaginario, basato sui temi delle canzoni e sull’estetica dei musicisti; ma ciò che distingue quello dei Manowar è l’insistenza con cui, da sempre, viene riaffermato mediante proclami altisonanti e appassionate dediche ai fan. L’amore spropositato con cui essi ripagano la band è un indice della sorprendente capacità di conquista di questo immaginario elevato a norma di vita: combattere il mondo e prendere quel che ha da offrire, per affermare fieramente la propria indole pur nei suoi eccessi; solo chi condivide la fede nel vero metal è un amico ed un fratello. Da tutto ciò, accompagnato da un’estetica imperniata su lotta e machismo, scaturisce un pezzo come “Metal Warriors”: un bel mid tempo trascinante, à la Judas Priest, che sbandiera disinvoltamente le suddette tematiche. Come giudicarle? Si tratta di saggezza o di puro e semplice egocentrismo? È amore viscerale per i propri fan, o trita legittimazione della rivolta di chi non vuole (o non sa) integrarsi se non coi similii? La risposta più plausibile è che i Manowar siano in tutto e per tutto l’emanazione della personalità di Joey DeMaio, uno che partendo da zero, armato di grinta e coraggio, è riuscito a raggiungere la fama mondiale e a produrre i propri dischi, senza mai tradire un’intransigenza ammirevole quanto, va detto, quasi impossibile per chiunque altro...

 

Tutte le altre composizioni di “The Triumph Of Steel” esprimono la medesima ostinazione compositiva e tematica, lo stesso inquieto connubio di prolissità ed energia. “Ride The Dragon” si denota principalmente per la voce che, come già nell’opener, passa ossessivamente dal canale di destra a quello di sinistra – una soluzione non sempre felicissima, quando abusata. “Spirit Horse Of The Cherokee” esibisce un Eric Adams in grandissimo spolvero, capace di controllare perfettamente la voce in uno screaming degno del miglior Ian Gillan. “The Burning” e “The Power Of Thy Sword” incarnano, rispettivamente, il lato opprimente e quello sbrigliato della determinazione, somigliano la prima ad un’implacabile marcia, la seconda a un fiero canto di guerra. Infine la cupa “Demon’s Whip” lascia il poso, dopo il suo assalto finale, all’emozionante “Master Of The Wind”.

 

"The Triumph Of Steel" va letto, dunque, sia come il sommo sfoggio delle capacità compositive dei Manowar, sia come la massima attestazione dei loro ideali, o almeno come la testimonianza più compiuta dell’esperienza di vita del loro leader. Continua a sembrare tutto esagerato? Un vero fan dei Manowar, che ho interpellato al proposito, così si è espresso: “che cazzo, io ho bisogno di eroi, non di politici!”. È in gioco la forza dell’integrità, il fascino dell’intransigenza senza compromessi: qualità estreme che almeno in musica, nell’arte che più di tutte lambisce l’immateriale, bisogna potersi permettere. E questo è appunto lo spirito dei Manowar.





01. Achilles: Agony And Ecstasy In Eight Parts
Prelude
I: Hector Storms The Wall
II: The Death Of Patroclus
III: Funeral March
IV: Armor Of The Gods
V: Hector's Final Hour
VI: Death Hector's Reward
VII: The Desecration Of Hector's Body
VIII: The Glory Of Achilles
02. Metal Warriors
03. Ride The Dragon
04. Spirit Horse Of The Cherokee
05. Burning
06. The Power Of Thy Sword
07. The Demon's Whip
08. Master Of The Wind

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