Led Zeppelin
Led Zeppelin II

1969, Atlantic Records
Rock

Recensione di Giovanni Ausoni - Pubblicata in data: 22/10/17

Perla in un quadrilatero magico, brillante lucerna sulla rocca, gemma vermiglia di sempiterna resistenza: anche il tempo divoratore, capace di travolgere certezze e mordere giganti, ferma la propria corsa dirompente di fronte all'alma mobile e purpurea di "Led Zeppelin II". Locomotore inarrestabile, sbuffa tagliente e roccioso, diafano eppur consistente: il rombo concavo del velluto adagiato sovra aguzzi cartigli. Un disco cucito in otto mesi, tra consapevoli saccheggi blues, soluzioni rivoluzionarie e gargarismi acustici, figlio di tour massacranti e distopici ratti mitologici.

 

Se l'esordio di pochi mesi prima mostrava una band abile nel mescere con sapienza sciamanica cover, rifacimenti e composizioni originali, la nuova prova dell'ancor giovane ensemble veicola messaggi subliminali destinati a procedere in ramificate direzioni. Scritto durante le pause notturne dei concerti e registrato in studi diversi sotto la supervisione di Eddie Kramer, ingegnere del suono di Jimi Hendrix, l'album documenta senza infingimenti la crescita collettiva del combo: un lavoro d'equipe in cui ciascun membro contribuisce da par suo alla creazione di uno stile peculiare e multiforme.

 

Pietre preziose d'interi lati screziati, con un occhio attento a Sonny Boy Williamson e un piede ben piantato in "Electric Ladyland", i quattro cavalieri albionici rifulgono di virtuosismo e sfrenata vena creativa. Heavy rock apolide e radicato, sapido foraggio per schiere di coevi e futuri compagni d'elezione, ricerca sonora di camaleontica levità: il gruppo transita fecondo dalla Britannia al resto del mondo.

 

L'opener detta le coordinate generali. Il riff d'apertura breve e furioso di "Whole Lotta Love" tracima in un break strumentale dall'allure cacofonico: gli orgasmici gemiti in riverbero di Plant accompagnano il solo finale di Page, in una vertigine che sposa torbido hard blues ed elettricità anthemica. La psichedelia fa capolino in "What Is And What Should Never Be", sostenuta da un ritmo che volteggia pacato sino alle metafisiche distorsioni del guitar hero londinese. Un brano dalle allusioni sentimentali, carico di sofferenza e speranza, seguito dall'ironico testo sessista di "The Lemon Song"; ipnotico e fondamentale supporto all'ordito, le tessiture delle linee di basso di John Paul Jones, ulteriore protagonista con l'Hammond nella dolce e morbida "Thank You".

 

 

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"Heartbreaker" inaugura la seconda sezione del platter: brano che racchiude l'essenza innovativa dei Led Zeppelin, un concentrato di energico hard rock ante litteram, trascinante in sede live e modello per un intero genere, con il tapping di Jimmy Page come tecnica chitarristica da tramandare ai posteri. A ruota segue la briosa e volutamente spensierata "Living Loving Maid (She's Just A Woman)": le evoluzioni rock'n'roll della Vox Phantom a dodici corde e un finale esplosivo caratterizzano la progressiva empatia con l'attempata eroina della lirica.

 

Tutt'altro che sazi, i musicisti inglesi rappresentano altresì i precursori di sé medesimi: l'aggressiva ballad "Ramble On" miscela, attraverso una filigrana di matrice folk gravida di sviluppi futuri, riferimenti fantasy al Tolkien de "Il Signore Degli Anelli", evocazioni di atmosfere oscure, presenza di esoterici rituali. La misteriosa simbologia dietro ZoSo, l'occultismo di Aleister Crowley, la diffusa sensazione di misticismo, le fantasticherie medievaleggianti: elementi che saranno preponderanti di lì a poco unitamente a una parziale modifica del sound testé codificato. L'assolo percussivo di Bonham marca l'instrumental "Moby Dick", costruita ad hoc per esaltare i numeri d'alta scuola del batterista; a cavalcioni sul mostro fagocitante ostacoli d'ogni risma, Bonzo piroetta le bacchette in una danza totemica potenzialmente infinita. Chiude il lotto la grezza centrifuga riassuntiva di "Bring It On Home": accreditata, non senza giustificate contestazioni, a Willie Dixon, gode di una leggera, e tuttavia efficace, velatura funky e delle note dell'armonica di Plant a conclusione dell'intenso viaggio a bordo del Dirigibile.

 

"Led Zeppelin II" lascia dunque storditi e meravigliati per furore e invenzione. Banale definirlo influente, rischioso sottovalutarne l'unicità: un opus imprescindibile, un decollo travolgente, una fertile bomba sganciata su terreni riarsi.





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