Korn
The Nothing

2019, Roadrunner Records
Nu-metal

The Nothing è un approccio eloquente al dolore, che disegna un’immagine senza luce, senza speranza, soffocante e opprimente. 

Recensione di Cristina Cannata - Pubblicata in data: 13/09/19

Una delle tonalità fondamentali e fondanti della vita emotiva dell'uomo è rappresentata dal dolore, la sfumatura negativa, il contrario della felicità, che sbilancia l'equilibrio dell'anima, condannando l'essere umano ad uno stato sfavorevole, non ottimale, una disarmonia di elementi che mette la vita in pericolo, secondo Platone.  
C'è il dolore fisico, quello psicologico, quello dell'anima, o la commistione contemporanea e oppressiva di tutte e tre queste dimensioni. In un modo o nell'altro, in presenza di squilibrio, l'istinto dell'essere umano lotta per riportare la situazione alla "normalità", ripristinando la condizione favorevole, in un processo che non è mai semplice e veloce. Come si interfaccia l'uomo con l'accettazione del dolore, e la sua interiorizzazione?

Un inno al dolore: è questo "The Nothing", il nuovo album dei Korn, il tredicesimo della loro carriera. Un album che rivela dei Korn che hanno deciso questa volta di mettere fuori il naso dal loro porto sicuro, azzardando un'uscita dai confini consolidati della loro "comfort zone", del loro sound tipico che li ha sbattuti sotto i riflettori già con il loro esordio nel 1994, quando si gridò al miracolo della nascita del nu-metal. Una mossa diversa da "The Serenity Of Suffering", dove la band rendeva omaggio agli esperimenti dei primissimi anni della loro carriera, orgogliosi di quel sound sporco e incattivito che aveva affascinato e fatto innamorare in tanti. E nonostante il nu-metal non sia mai passato totalmente di moda, il sentore era quello di un genere senza quasi più voglia di indagare nuove prospettive, dalla deriva quasi stantìa. Questa volta i Korn non sono così sporchi, non sono così heavy, come sono sempre stati nel passato, non sono così confidenti del loro stile: "The Nothing" ha un sound nuovo, coinvolgente, più avvolgente forse. Attento alle melodie e ai refrain che rimangono in loop in testa, non manca - ad onor del vero- di rendere omaggio agli elementi identificativi che hanno marchiato il sound della band di Bakersfield, dal basso di Fieldy alle chitarre graffianti, macerati e miscelati a creare un sound a dir poco impattante e penetrante, solido e robusto, che scongiura qualsiasi possibile pensiero di blocco creativo dell’artista.

La linea di continuità con il passato invece è netta per quanto riguarda i temi trattati: l'oscurità.
 
thenothing 
 
“The Nothing” è senza dubbio l’album più personale di Jonathan Davis, la sua intima catarsi - magistralmente supportata dai compagni di band - nei confronti di un dolore straziante, quello derivante della perdita di una figura centrale della vita del musicista, l’ex moglie Deven, morta un anno fa circa per un’overdose. È a lei dedicata ogni singola parola di ciascuna canzone, ogni urlo e ogni lacrima, ogni nota stridula.

Why did you leave me?”, così inizia l’album, con l'opener “The End Begings”. Un muro di cornamuse funeree prepara l’animo dell’ascoltatore ad essere travolto da tutta la potenza con cui il dolore può abbattersi su un essere umano, una esperienza naturalmente traumatica. E qui Davis piange, perché a volte non ci sono molte altre alternative. Ci si getta a capofitto nell’esplorazione del dolore. I due singoli presentati sono taglienti, brutali: “Cold” è uno schiaffo sonante, rincarato dalla voce di Davis che si cimenta in growl possenti e “You’ll Never Find Me”, che culmina invece in urla di angoscia e di consapevolezza di essere completamente persi.

Il groove è fitto, pesante e soffocante. Le chitarre di Brian “Head” Welch e James “Munky” Shaffer si seguono e si susseguono, lottano, si intrecciano, si sostengono a formare una una tela compatta, una struttura possente e, come da tradizione, graffiante, che sostiene e rimbomba la sensazione che ogni singola parola dei testi genera. Al gioco concorrono anche le manate sul basso di Fieldy, gutturale e funkeggiante e le braccia di Ray Luzier che con religiosa diligenza battono sulle pelli confermando il fatto che lui è decisamente il batterista dei Korn.

"The Darkness is Revealing" e "Idiosincrasy" hanno dei refrain che entrano in testa, così come "Can You Hear Me", "The Ringmaster" e "Gravity of Discomfort", tre capolavori, un crescendo di agitata confusione, terrore, sconforto. L'intermezzo "The Seduction Of Indulgence" è straziante: "Oh, come with me/They say the torture is divine", riferimento al passato di abusi di cui Davis è stato vittima. Nessuna luce trapela in questa sequenza incalzante: "Finally Free", ritorna a parlare di Deven e della sua lotta contro la dipendenza da droghe. Il finale è affidato a "H@rd3r" e "This Loss", due momenti di altissima emotività, dove la speranza di avere indietro quello che si è perso viene tremendamente cancellata dalla cruda consapevolezza di una irraggiungibile felicità, attestata da "Surrender To Failure": la presa di coscenza del fallimento ("I failed you") e la consapevolezza che c'è un prezzo a tutto nella vita.

"The Nothing" è un'approccio eloquente al dolore, che disegna un'immagine senza luce, senza speranza, soffocante e opprimente. "Niente", non possiamo fare assolutamente niente quando il dolore ci sceglie come prede. Un lavoro concettuale chiaro, che vuole ergersi esso stesso a percorso di interiorizzazione del dolore, di accettazione dell'inaccetabile. Uno dei tanti mezzi per ripristinare l'equilibrio, per mettere in salvo la propria vita da se stessi, dal peso dell'incapacità di sistemare le cose e dall'opprimente ricordo di una felicità perduta.




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