Chi di voi non ricorda quella "Mad About You" che spopolò appena scattato il 2000, ricca com'era di inconfondibili gorgheggi vocali e retaggi di sonorità dei Novanta incarnati in sintetici campanellini? Era una delle prime intrusioni nel grande mercato compiute dagli Hooverphonic, che con i notevoli "Blue Wonder Power Milk" e "The Magnificent Tree" riuscirono a infrangere i claustrofobici confini delle classifiche belghe per ottenere airplay in qualsiasi parte del globo.
Una carriera che, però, non sbocciò mai per davvero, come d'altra parte scarso fu il futuro che ebbe il piacevole trip-hop di quelle prime fatiche in studio. Dal profondo di un mesto dimenticatoio, così, la band guidata dal polistrumentista Alex Callier ha provato e riprovato a rimettersi in gioco con svariati cambiamenti di registro, di stile e anche di formazione, l'ultimo dei quali ha visto la vocalist dei primi successi, la bionda Geike Arnaert, sostituita dalla giovanissima Noémie Wolfs, frontwoman dotata di quel fascino indie-tormentato che tanto fa cool ai giorni nostri.
Ed è forse anche per adeguarsi alle nuove competenze vocali della Wolfs che sul loro ultimissimo album gli Hooverphonic installano il proprio sound su canoniche, ruffiane coordinate pop-rock, prendendo un po' dei Cranberries e un po' della malinconia della O'Riordan solista (il roco cantato di "Bad Weather", o le dolcezze di "Ether"), qualcos'altro dallo spleen di tanti act alternative contemporanei (l'incoraggiante apertura del singolo "Amalfi", purtroppo dissolta presto in una coda interminabile di inspiegabili "na-na-na"), finendo anche per smarrirsi in pasticciati omaggi adesso al dance pop ("Boomerang") o agli anni '60 (l'improponibile botta-risposta del ritornello di "Devil Kind Of Girl").
Bastano poche battute per capire che aria tiri, e ognuna delle tantissime tracce non sarà che un'amarissima conferma: tra le mani abbiamo una raccolta di quindici brani che nel più favorevole dei casi si dimenticano presto, nel peggiore lasciano ben impresse in memoria le tremende laccature di cui fanno sfoggio. Troppo inutili cori, troppi rimandi a prassi compositive cadute in disuso da decenni, troppe ballate molli e inconcludenti (vogliamo parlare di "ABC Of Apology"?). E dire che alla base della registrazione c'era un progetto anche abbastanza interessante, ribattezzato "Hooverdomestic", che non era -come potrebbe sembrare- una vendita di aspirapolveri porta a porta, ma l'incisione delle tracce in diverse abitazioni messe a disposizione dai fan, utilizzando anche strumenti musicali trovati in loco. Lodevole iniziativa, indubbiamente, ma un particolare processo costruttivo non può rendere godibili idee pessime alla radice. E il prodotto, dunque, non può che essere un album come "Reflections": stucchevole, vuoto, superfluo.