Buckcherry
Confessions

2013, Eleven Seven Music
Hard Rock

I Buckcherry intingono la penna nel veleno del peccato... ed è di nuovo inferno
Recensione di Mia Frabetti - Pubblicata in data: 20/02/13

Hey, man, do you wanna get a fist so hard?
Do you wanna see who’s in charge?
Hey man, you think you’re strong enough to play this game?
It’s gonna burn like acid rain, you’re gonna need some sutures


Get ready for World War III”: una nuova arma di distruzione di massa sta per mettere il mondo a ferro e fuoco, e per ricucire gli squarci che spalancherà servirà molto, molto più di un misero rocchetto di filo. Non esagera Josh Todd quando preannuncia una pioggia acida in grado di scavare crateri nella nostra carne: la penna con cui ha vergato “Confessions” è stata intinta nel veleno del peccato – un bagno a cui, ne siamo certi, neppure l’insolente chitarra di Keith Nelson deve essersi sottratta. Se pensavate di aver imparato qualcosa sui Buckcherry nei dieci anni trascorsi a bagordare in loro compagnia, scoprirete ben presto di esservi sbagliati di grosso: Josh Todd è uno di quegli uomini il cui presente è cosa nota, e il passato cosa ignota. Che importa se eravate con lui mentre giaceva “Lit Up”, strafatto, a bordo di quel delizioso sfavillante maledetto aereo chiamato Cocaina, oppure mentre si dichiarava “Too Drunk To Fuck” al termine di un concerto o, ancora, quando una “Crazy Bitch” gli conficcava le unghie nella schiena? La notte in cui la sua vita cambiava per sempre, la notte in cui suo padre si suicidava e Josh Todd diventava Josh Todd, il frontman dei Buckcherry era da solo. Avremmo dovuto aspettarcelo dai discendenti degli Aerosmith: sono rock star, oltre i tatuaggi c’è di più – un groviglio di cicatrici, una mappa di dolori, una ferita insanabile. E “Confessions”, trionfo di refrain catchy e di testi crudi, è la definitiva consacrazione dei Buckcherry, la massima espressione di tutti i loro cliché e al tempo stesso la rottura degli schemi che li hanno resi famosi, una compilation di peccati fra i quali non figura nemmeno un rimpianto, un disco a tratti difficile da ascoltare, ma sicuramente impossibile da dimenticare. La festa di “All Night Long” si è tramutata in una carneficina in cui la chitarra di Nelson raschia e graffia, ma la voce di Todd incide lacera dilania uccide, e il precedente album dei Buckcherry impallidisce al cospetto di questa cattedrale di luci e ombre. È una chiesa sconsacrata, quella di “Confessions”, dove la comunione è officiata da un vecchio hippie che adagia una pasticca di mescalina in punta di lingua a chiunque abbia voglia di un delizioso trip all’inferno, e dove chi non ha il coraggio di indossare soltanto la propria pelle non è il benvenuto: lasciate che i potenti hook di “Gluttony” e “Nothing Left But Tears” aggancino i vostri abiti e li strappino via, oppure tornate ad adorare i vostri idoli di legno, e non fatevi vivi mai più. Qui, quando si ha voglia di un viaggetto, lo si fa in grande stile, e non con lo scadente oppio dei popoli. Bruceremo all’inferno per questo? Non importa: chi ha paura della dannazione eterna, dopo aver visto di cosa sono capaci gli uomini? Di sicuro non Josh Todd.

I feel like I have seen enough, my memories are crimes

Gola, ira, orgoglio, invidia, lussuria… Sembra non esserci peccato al quale il nostro si sia sottratto, e la succosa rievocazione è velata da troppo compiacimento per farci credere che il frontman dei Buckcherry parli sul serio quando strepita a pieni polmoni “I wanna die and kill my dirty mind”. Il tempo sembra non essere trascorso per la sua voce, ancora grezza, autentica e meravigliosamente sgradevole come il primo giorno, mentre pare aver smussato qualche angolo del guitar playing di Nelson; perciò non dubitiamo che qualche punk integralista avvertirà il desiderio di vomitare quando gli verrà spinta in gola a forza la cucchiaiata di miele di “The Truth”, ma la cosa non ci riguarda: mica vorremo fare tardi al festino dell’anno per prender parte a uno sterile dibattito circa il rammollimento dei “cold motherfuckers that never get screwed”, vero? Le note di “Greed” già risuonano nell’aria, e la tripletta di “Water”, “Seven Ways To Die” e “Air” smania per mostrarci una band in gran forma le cui scorte di carne e assolo da mettere al fuoco sono ben lontane dall’essere esaurite. Le conferme maggiori tuttavia arrivano dalla tragica “Sloth” e dalla brulla “Pride”, novità assolute nel catalogo dei californiani: cavalcata di violino e pianoforte la prima, aspro ritratto di un uomo cui rimane ben poco a parte un orgoglio sbrindellato la seconda, i proiettili più dolorosi di “Confessions” si conficcano talmente in profondità da rendere impossibile estrarli. Neppure tutta la melodia del mondo, stavolta, basterebbe ad addolcire la crudezza con cui la voce di Josh Todd rievoca il suicidio del padre, e infatti il dolente assolo di chitarra acuisce soltanto la sensazione di essere precipitati a un funerale – non quello dell’uomo che più di trent’anni fa si è tolto la vita, ma quello del bambino che ha trascinato con sé, quello della sofferenza che Josh Todd ha seppellito senza accorgersi che era ancora viva e pulsante, e che, a tre decenni di distanza, ancora non vuol morire. È l’altra faccia della luna, quella sfigurata, butterata, mostruosa; quella che gli uomini non vedono mai, quella di cui molti non sospettano nemmeno l’esistenza. Ma c’è un prezzo da pagare per cantare come canta Josh Todd, e “Pride”, sermone avvelenato di un uomo che ha bruciato consumato abusato ripetutamente la propria vita, ne è la prova. Un ritornello light non basta a scacciare dai nostri occhi il ricordo di ciò che abbiamo visto, e infatti anche quando la batteria torna a stregare i nostri piedi su “Envy” e “Lust” la gioia che anima le gambe non si estende al cuore. Ma aspettate a estrarre ago e filo per ricucire insieme i lembi delle vostre ferite, perché i Buckcherry hanno un’ultima confessione da fare, e questo peana concepito sul sottile filo di rasoio che separa i fasti dalle disgrazie non è ancora terminato. “Dreamin’ Of You” potrebbe essere la chiusura risolutiva di un disco risolutivo oppure un totale disastro: per fortuna, sceglie di essere la prima, e la sua melodia carezzevole precipita di colpo in un passato lontano i giorni in cui Josh Todd annaffiava i suoi risvegli con il whiskey, dedicava canzoni a porno star e sacrificava zelante i propri neuroni sull’altare della dea droga.

When the feeling’s gone and you can’t go on
Just remember one thing, that it won’t last long
Believe in yourself, stand up tall
It’s our time to shine, it’s our time


Impossibile non sentirsi di colpo più soli quando la musica svanisce in lontananza e le braccia che ci stringevano si dissolvono. Se è vero che capisci di aver letto un buon libro quando giri l’ultima pagina e ti sembra di aver perso un amico, allora lo stesso deve valere per i dischi, e “Confessions” deve essere la pietra miliare dei Buckcherry: perché, una volta decaduta l’ultima nota, ci sembra di non esserci mai sentiti più sperduti, e tutto quello che vorremmo è sentire il telefono che squilla e scoprire che all’altro capo ci sono Josh Keith Stevie Jimmy Xavier e giù in città c’è un pub che attende solo noi. Ma il telefono tace. La musica è cessata. Ed è questo il vero inferno.



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