"Too many hands trying to steal this prize
We all got demons, we all get scared
On our knees hoping someone cares
We are the soul in the machine"
Passano gli anni e i Goo Goo Dolls passano sempre più al lato Pop della forza. Senza Mike Malinin - alla batteria e alla protesta dal 1995 - e con l'obbligo contrattuale di un nuovo album, John e Robby si ritrovano tra le mani un concept così così da dover ottimizzare coinvolgendo una squadra di turnisti ai loro ordini, un esercito di fan con cui si è sviluppata nei decenni una sincronia a prescindere dai lievi cambi di formazione, un'escalation mediatica troppo concentrata negli ultimi anni, sintomo di esigenze che si allontanano dall'insieme di quelle puramente artistiche.
Con il tempo che scorre e uno standing da mantenere il più coerente possibile, si affidano ad un unico elemento che mai li ha traditi da dopo la rinascita del 2010 (Something For The Rest Of Us): il ritornello, potente e melodico, che come un incantesimo rimane in testa e si propaga supportato - questa volta più che mai - da archi, piani e arrangiamenti orchestrali che rendono quasi barocco un prodotto pulito e definito in un suono al punto tale che, forse, non ha più bisogno di chitarre clean (che si fanno rispettare e rimpiangere solo nel singolo Souls in the Machine).
Rischiano di partecipare al festival del qualunquismo con testi al limite della credibilità per chi li ascolta per la prima volta, ma la fanbase dei Goos è solida e adulta: cercano questi sentimenti, queste rivincite, queste lande cittadine più leggere dopo una tempesta primaverile. È una città che popoliamo stanchi, conservando, nascondendo all'interno del nostro vagare una luce preziosa e calda. John Rzeznik - un tempio piromane, ora imprenditore dell'elettricità delle connessioni umane - sa come accenderla. Che lo faccia davvero in "Boxes" è un altro dubbio chiuso e imballato in un macchinario industriale di cui non si capisce fino a che punto egli stesso voglia farne parte.