Puntuali come un orologio svizzero, e al ritmo di uno ogni due anni, Ritchie e Candice (intervista) mandano in stampa un nuovo disco dei Blackmore’s Night, il decimo in quasi due decadi. All Our Yesterdays, il cui titolo è un ringraziamento alle cose belle donate dal passato in funzione di presente e futuro, precede di qualche mese altre due imminenti uscite che li riguardano singolarmente: un dvd sulla vita di Blackmore e il secondo solista di Candice, entrambi previsti per novembre. L’album, successore di quel Dancer And The Moon che mischiava momenti briosi ad altri più intimi e nostalgici, mette in atto le soluzioni melodiche che hanno caratterizzato l’ultimo periodo artistico della band badando quindi più alla melodia spiccia e diminuendo i ricami di Blackmore, leggermente meno partecipe nelle trame dell’opera coi deliziosi orpelli strumentali.
Il filo conduttore è la famiglia, basti pensare alla title track che ha riscontri nelle origini russe di Candice o al titolo di “Allan Yn Y fan”, scritta dal tedesco George Hesse, di cui sono chiari i riferimenti al Galles, nazione che ha dato i natali a Ritchie Blackmore. Quattro le cover presenti che fagocitano l’aurea romantica dei Blackmore’s Night ma che si scordano quasi completamente del flavour rinascimentale che ha sempre contraddistinto le loro creazioni. In ogni caso è perfetta la rivisitazione “Moonlight Shadows” di Mike Oldfield, ugualmente interessanti anche “Long Long Time” di Linda Ronstadt, nominata nel 1970 ai Grammy Award alla miglior interpretazione vocale femminile pop per questa canzone estratta dall’album Silk Purse, e “I Got You Babe” di Sonny e Cher, brano che ha comandato le classifiche statunitensi e inglesi nel lontano 1965. L’altra cover è la già menzionata “Allan Yn Y fan”, una strumentale celtica che il gruppo pallino di Blackmore, i tedeschi Geyers, avevano suonato qualche anno addietro. A queste quattro, in realtà, dovremmo aggiungere anche “Where Are We Going From Here” se non fosse che è stata scritta proprio dai due “sposini” e pubblicata nel 2004 sul magistrale “Ghost Of A Rose”: qui la canzone è riproposta in una pessima versione post-moderna che niente ha a che vedere col capolavoro che fu, una scelta totalmente incomprensibile quasi a voler scimmiottare il singolo del disco precedente “The Moon Is Shining”. L’album si risolleva coi singoli danzerecci, “All Our Yesterdays” e “The Other Side”, due costruzioni semplicissime, e spicca il volo grazie a quattro nuove perle che tornano a suonare come nei tempi che furono: “Coming Home” è uno spumeggiante saliscendi medievale, così come lo sono “The Other Side” e “Will O’ The Wisp” dalle sinfonie che profumano d’antichità. Eccelle poi la dolcissima “Earth, Wind and Sky”, un’ode alla natura incontaminata che trova riscontro in una melodia da sogno. Non convincono per niente, invece, le strumentali “Darker Shade Of Black” e “Queen's Lament”: molto poco ispirate rispetto alla media delle loro produzioni passate.
Pare che Ritchie, da qualche disco a questa parte, si sia lasciato convincere dalla innata predisposizione di Candice verso la musica pop. Dopo il favoloso “Secret Voyage”, infatti, i Blackmore’s Night hanno cominciato a dedicarsi a brani nettamente più commerciali, costruiti per esaltare solamente il ritornello strappa-applausi. Lo confermano anche la scelta delle cover (un tempo riempitivi, oggi insostituibili) e la produzione curata da Pat Regan, poco profonda. “All Our Yesterdays” è un disco orecchiabile, piacevole, dolce, diretto, discreto. “Shadow of The Moon”, “Fires at Midnight”, “Ghost of A Rose” e “Secret Voyage”, invece, sono capolavori ineguagliabili che non possono e non devono essere paragonati alle tre pubblicazioni più recenti per manifesta superiorità. Continueremo a gustarci questi Blackmore’s Night nella speranza di un vero ritorno alle origini. Ah già, a proposito di ritorni: Blackmore si concederà al Rock l’anno prossimo, ma questa è un’altra storia o meglio… un’altra fiaba.
Il filo conduttore è la famiglia, basti pensare alla title track che ha riscontri nelle origini russe di Candice o al titolo di “Allan Yn Y fan”, scritta dal tedesco George Hesse, di cui sono chiari i riferimenti al Galles, nazione che ha dato i natali a Ritchie Blackmore. Quattro le cover presenti che fagocitano l’aurea romantica dei Blackmore’s Night ma che si scordano quasi completamente del flavour rinascimentale che ha sempre contraddistinto le loro creazioni. In ogni caso è perfetta la rivisitazione “Moonlight Shadows” di Mike Oldfield, ugualmente interessanti anche “Long Long Time” di Linda Ronstadt, nominata nel 1970 ai Grammy Award alla miglior interpretazione vocale femminile pop per questa canzone estratta dall’album Silk Purse, e “I Got You Babe” di Sonny e Cher, brano che ha comandato le classifiche statunitensi e inglesi nel lontano 1965. L’altra cover è la già menzionata “Allan Yn Y fan”, una strumentale celtica che il gruppo pallino di Blackmore, i tedeschi Geyers, avevano suonato qualche anno addietro. A queste quattro, in realtà, dovremmo aggiungere anche “Where Are We Going From Here” se non fosse che è stata scritta proprio dai due “sposini” e pubblicata nel 2004 sul magistrale “Ghost Of A Rose”: qui la canzone è riproposta in una pessima versione post-moderna che niente ha a che vedere col capolavoro che fu, una scelta totalmente incomprensibile quasi a voler scimmiottare il singolo del disco precedente “The Moon Is Shining”. L’album si risolleva coi singoli danzerecci, “All Our Yesterdays” e “The Other Side”, due costruzioni semplicissime, e spicca il volo grazie a quattro nuove perle che tornano a suonare come nei tempi che furono: “Coming Home” è uno spumeggiante saliscendi medievale, così come lo sono “The Other Side” e “Will O’ The Wisp” dalle sinfonie che profumano d’antichità. Eccelle poi la dolcissima “Earth, Wind and Sky”, un’ode alla natura incontaminata che trova riscontro in una melodia da sogno. Non convincono per niente, invece, le strumentali “Darker Shade Of Black” e “Queen's Lament”: molto poco ispirate rispetto alla media delle loro produzioni passate.
Pare che Ritchie, da qualche disco a questa parte, si sia lasciato convincere dalla innata predisposizione di Candice verso la musica pop. Dopo il favoloso “Secret Voyage”, infatti, i Blackmore’s Night hanno cominciato a dedicarsi a brani nettamente più commerciali, costruiti per esaltare solamente il ritornello strappa-applausi. Lo confermano anche la scelta delle cover (un tempo riempitivi, oggi insostituibili) e la produzione curata da Pat Regan, poco profonda. “All Our Yesterdays” è un disco orecchiabile, piacevole, dolce, diretto, discreto. “Shadow of The Moon”, “Fires at Midnight”, “Ghost of A Rose” e “Secret Voyage”, invece, sono capolavori ineguagliabili che non possono e non devono essere paragonati alle tre pubblicazioni più recenti per manifesta superiorità. Continueremo a gustarci questi Blackmore’s Night nella speranza di un vero ritorno alle origini. Ah già, a proposito di ritorni: Blackmore si concederà al Rock l’anno prossimo, ma questa è un’altra storia o meglio… un’altra fiaba.