Black Sabbath
13

2013, Vertigo Records
Heavy Metal

I sulfurei cavalieri tornano all'attacco, ma il ritorno delle plumbee atmosfere nasconde qualcosa che non va...
Recensione di Andrea Mariano - Pubblicata in data: 10/06/13

Dai sulfurei meandri delle oscure viscere della terra, i quattro cavalieri dell'apocalisse (sonora) riemergono dopo ben 35 anni d'assenza, 35 anni durante i quali si sono divisi ed hanno formato nuovi fronti, nuovi eserciti, ora facendosi nuovi alleati come Dio, ora marciando solitari ma al contempo circondati da fidi soldati armati di poderose bordate di decibel. A dire il vero, un cavaliere è stato disarcionato dai suoi stessi compagni e fatto ripiombare nell'immensità del sottosuolo sonoro, oramai incapace, a detta degli altri cavalieri, di tenere il ritmo dei tamburi belligeranti. Al suo posto, un più giovane e fedele discepolo, già al servizio del Principe delle Tenebre durante le sue solitarie cavalcate.


I padrini del metal, i padri fondatori di quel mondo inquietante eppure affascinante, tetro e maestoso nella sua decadenza ed oppressività, sono tornati. I Black Sabbath sono tornati, coadiuvati dal guru del mixer Rick Rubin che li ha traghettati come un Caronte del III Millennio al di là dell'Acheronte e li ha riportati alla luce del sole per farlo nuovamente oscurare come facevano esattamente oltre trent'anni fa ad ogni loro singola uscita.


I granitici, cadenzati, claustrofobici riff di “End Of The Beginning” e “God Is Dead” ci fanno pensare immediatamente che la missione del “carontico” produttore americano è perfettamente compiuta: un tuffo nelle atmosfere orrorifiche eppure così dannatamente ammalianti dei lavori più famosi dei Nostri, solo con la produzione decisamente più robusta e roboante che la moderna tecnologia finalmente mette a loro disposizione. Rispettivamente otto e nove minuti degli inconfondibili arrangiamenti e fraseggi creati dalla mano sinistra di Tony Iommi, il quale, nonostante le ormai conclamate condizioni di salute tutt'altro che eccellenti, sfodera alcune delle sue perle migliori della carriera. La cavalcata verso l'oscuramento dell'astro procede a grandi falcate con “Loner”, brano decisamente più breve e di più ampio respiro, con ottime incursioni che paiono concedere una tregua e che invece preparano all'affondo sul costato.


Il mantra mistico di “Zeitgeist” tenta di richiamare gli spiriti del passato affinché palesino per una volta ancora le atmosfere oniriche della leggendaria “Planet Caravan”, ma qualcosa non quadra: Ozzy, Tony e Greezer non riescono nell'impresa, manca quel quid che ti fa scorrere un brivido lungo la schiena, quel quid che ti coglie impreparato e fa sussultare le viscere. È in questo momento che ci si chiede se i cavalieri apocalittici, nella loro cavalcata contro l'Astro, possano davvero ripetere le gesta passate con altrettanta efficacia.


Giunti a “Dear Father”, il finale che si palesa dinanzi a noi è possente, granitico, compatto: i Black Sabbath raggiungono la meta della loro furiosa cavalcata e dispongono una folta schiera di nubi che nascondono il sole per cominciare con quella che dovrebbe essere una tetra pioggia perpetua. Purtroppo però, dopo lo scompiglio iniziale, lo stupore lascia spazio ad un sentimento più neutro, ad una sensazione che dopotutto non c'è nulla di così angoscioso e terrificante in una pioggia ed un cielo plumbeo. Il catartico terrore, l'atavica angoscia che coglieva l'uomo durante le eclissi totali di sole sono ben lontane dal ripresentarsi. Mentre i classici Sabbath avevano sull'ascoltatore il medesimo prodigioso potere che l'eclissi totale di sole aveva sulle antiche popolazioni, “13” è un cielo plumbeo, carico di tempesta e pronto a scagliarsi contro un essere umano che tuttalpiù all'inizio si spaventa, ma poi ne smitizza la minaccia.


Il sottoscritto si è chiesto a lungo quale fosse la falla, quale fosse il punto debole dell'album: potenzialmente, ogni composizione è buona, se non ottima; è vero, la voce di Ozzy è fortemente effettata, ma è sempre stato così e dona tuttavia un effetto straniante che giova all'atmosfera tetra generale; buona parte dei brani supera i 7 minuti, ma la struttura è solida a sufficienza da non stufare poi molto. Dopo un'attenta analisi, si scopre che il punto debole è paradossalmente uno dei punti di forza, ovverosia la produzione del disco. Non per quanto concerne il sound, perfetto di per sé, bensì la produzione vera e propria. Pulizia sonora invidiabile, grande potenza sprigionata, troppa potenza sprigionata. Ed ecco che “13” scopre il fianco: la cavalcata dei Nostri verso il ritorno sulfureo manca clamorosamente di dinamicità, di quel crescendo di epicità, di quel guizzo improvviso che ti fa rabbrividire e godere al contempo. In “Age Of Reason” l'innesto delle tastiere dovrebbe esser elettrizzante, dovrebbe far nascere un piccolo brivido nell'ascoltatore, ed invece è null'altro che un ottimo spunto a cui si fa caso, ma nulla più; il finale di “Damaged Soul” dovrebbe essere un crescendo di emozioni e di potenza, ma non suscita nulla di tutto ciò nonostante paradossalmente sia strutturato proprio in maniera tale da crearlo. Incredibile come un potenziale capolavoro si ritrovi minato proprio da un aspetto che dovrebbe curare e valorizzare in maniera maniacale gli accorgimenti appena esposti.


Con “13” i sulfurei cavalieri son tornati all'attacco, e lo hanno fatto con le migliori intenzioni ed in buona parte riescono nell'intento, ma, per l'appunto, lo scompiglio e la capacità di destabilizzare hanno lasciato spazio ad una leggera sorpresa, nulla più. Una maestosa e tetra giornata, rigonfia di pioggia battente ma senza fulmini agghiaccianti, di cui abbiamo (purtroppo) coscienza della sua natura transitoria.





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